Ho letto il nuovo libro di Berlingerio che tratta dell’ulivo e della sua storia. Un libro è sempre interessante, ma il testo così striminzito mi ha lasciato un pò perplesso. Per i lettori di “Città Nostra”, per rinnovare l’amore verso un prodotto che ha sempre caratterizzato la nostra storia, ripropongo comunque l’articolo pubblicato sul n. 48 del novembre 2006:
LA CIMA DI MOLA
Abbiamo assistito quest’anno ad un’altra sagra estemporanea, quella della patata, dimenticando che la “sagra” dovrebbe esaltare un prodotto tipico della produzione locale: non è forse meglio parlare di una sagra della patata a Polignano, come quella dell’uva a Rutigliano e Adelfia, della cipolla ad Acquaviva, della ciliegia a Turi e Conversano, del cardoncello a Gravina e Altamura, della zampina a Sammichele? C’era una volta la sagra del polpo di Mola, ma ora sarebbe meglio parlare della sagra del polpo giapponese, poiché le quantità pescate in zona sono insufficienti per un consumo di massa ed il prodotto offerto durante la manifestazione è tutto d’importazione. Eppure nel nostro paese esiste un altro prodotto veramente tipico di cui pochissimi ne parlano, una varietà d’ulivo nota ed apprezzata in tutto il mondo: “la Cima di Mola”. Se l’ulivo è considerato una pianta sacra che rappresenta il simbolo dell’evolversi della specie umana, Mola ha espresso certo una tappa di quel lungo cammino di civiltà, al centro di una regione con terreni poveri e con scarsa acqua, dove era necessario ottenere od inventare una specie fruttifera che non richiedesse tanta acqua e che con le sue radici fosse in grado di camminare sottoterra alla ricerca di quelle sostanze carenti in superficie. La pianta assomigliava ai nostri poveri contadini costretti ad operare dall’alba al tramonto sotto il sole ed al gelo dell’inverno: era rugosa, contorta, spesso straziata e con lunghe ferite sul tronco. Un tronco imponente con forme uniche, come a rappresentare artistiche sculture modellate dal tempo e dal sacrificio degli uomini.
L’ulivo è stato sempre presente nella Terra di Mola da circa diecimila anni. Noccioli sono stati scoperti nei ritrovamenti preistorici della grotta di Cala Colombo e del sito di Scamuso, entrambi tra Torre a Mare e Mola. E’ possibile che l’ulivo si sia evoluto insieme agli abitanti della Terra di Mola, dalla sua forma spontanea (oleaster) alla pianta generosa (Olea Europea) che procura all’uomo l’olio, quell’alimento straordinario che sembra d’origine divina. Dominique-Vivant Denon, allontanandosi da Mola, attraversò un “delizioso boschetto di mirti” ed una campagna piena di grandi alberi d’ulivo: “Giungemmo poi ad una grandissima foresta di ulivi. Da molto tempo non vedevamo alberi, cosicchè un bosco di grandi ulivi ci sembrò una cosa meravigliosa”.
La prima coltivazione dell’ulivo si ebbe in Asia Minore e si diffuse – seguendo “la rotta della civiltà”- in Mesopotamia, nell’antico Egitto, a Creta, nella Grecia e quindi nell’Europa mediterranea. E’ ammissibile tuttavia l’ipotesi che in Europa sia stata ottenuta la pianta da olio (Olea Europea) dalle forme spontanee (oleaster). Esistono piante antichissime: nei pressi di Atene si trova il cosiddetto “ulivo di Platone” con un’età superiore ai duemila anni.
Da sempre l’ulivo è stato al centro di tradizioni, miti e leggende: nel podere di Adamo vi erano un ulivo, un cedro ed un cipresso; la fine del diluvio fu annunciata a Noè da un ramo d’ulivo portato da una colomba; il faraone d’Egitto donava al dio Rà i suoi oliveti per estrarre l’olio per le lampade del santuario; la dea Atena regalò una pianta d’ulivo a Giove nella contesa con Poseidone, il dio del Mare; nella Domenica delle Palme i cristiani si scambiano un ramoscello d’ulivo. Per i Greci l’olivo era considerato una pianta sacra e chi la danneggiava o la sradicava subiva per punizione l’esilio. Omero chiamava l’olio “oro liquido”. L’olio d’oliva è usato nel battesimo, nella consacrazione dei sacerdoti, nell’estrema unzione e per il sacramento della cresima.
L’olio quindi è stato utilizzato da millenni non soltanto come cibo, ma anche per curare malattie, per alleviare il dolore delle ferite, per la bellezza degli atleti, come dono di nozze, per alimentare le lampade, per i riti sacri.
Quando la pianta giunse in Europa si diffuse soprattutto in Puglia dove trovò il suo habitat ideale, insieme alle forme spontanee. Il grande poeta latino Ovidio, parlando della Puglia (la terra dove le “grotte si perdono nelle ombre dei boschi”), raccontò che un pastore fece fuggire da quella terra le ninfe, insultandole, e che per punizione fu avvolto da una corteccia ruvida e divenne albero selvatico d’ulivo (oleastro).
Gli abitanti della Terra di Mola erano grandi conoscitori della pianta selvatica (l’oleastro) che cresceva nel proprio territorio e che dava piccoli frutti amari (la desinenza “aster” o “astrum” dà il senso peggiorativo del termine). Furono operati innumerevoli riadattamenti delle piante fino ad ottenere un albero molto vigoroso che dava un frutto piccolo ed asimmetrico, di colorazione nera e lucente, con una soddisfacente resa di olio, dolce e fruttato, dal colore giallo intenso e caratterizzato da un aroma fresco erbaceo e da un gusto dolcissimo, con retrogusto soave. Una pianta, inoltre, che resisteva alla siccità e all’attacco dei parassiti. Quella varietà (cosiddetta “cultivar”) – che vive e prospera bene sulle zone litoranee – fu conosciuta ovunque come “Cima di Mola” e fu introdotta in tanti altri posti per ottenere olio squisito.
Forse inizialmente gli abitanti della nostra terra ricavavano l’olio con una semplice spremitura dei frutti, avvolgendoli in un panno. In seguito – a partire dal secolo XVI – fu usata un mortaio nel quale erano messe le olive da schiacciare mediante una macina, azionata a mano in senso verticale ed in un secondo momento fatta girare attorno ad un asse di legno. Il mortaio era di pietra con una fessura per far cadere il liquido in un recipiente; la macina (mola) era una poderosa ruota di pietra con un foro al centro, nel quale era conficcato un palo, quest’ultimo collegato ad una trave verticale sulla quale era piantata una stanga orizzontale per far girare il tutto e schiacciare le olive. La stanga era spinta inizialmente dall’uomo e successivamente da un mulo o da un asino.
Al tempo dei Greci e dei Romani si distinguevano due tipi di frangitura delle olive: la mola olearia ed il trapetum. La mola olearia era composta da una base rotonda e fissa; al centro era incastrato il braccio di una macina a ruota che girava intorno al suo asse; la macina era fissata all’asse in modo che la sommità fosse mobile per non schiacciare i noccioli delle olive. Il trapetum era composto da una grossa pila in pietra o mortaio in cui, intorno ad un piccolo asse verticale, giravano due macine semisferiche. Fra tutte le piante l’ulivo era quella più pregiata. Lucio Giunio Moderato Columella (4 d.C.- 70 d.C.) nella sua opera De Re Rustica affermò: “Omnis tamen arboris cultus simplicior quam vinearum est longeque ex omnibus stirpibus minorem inpensam desiderat olea, quae prima omnium arborum est” (La coltivazione di qualunque albero, per dire il vero, è più semplice di quella della vite, e fra tutte le piante l’olivo è quello che richiede spesa minore, mentre tiene tra esse il primo posto).
In Puglia il frantoio (il locale dove si “frange”) fu chiamato, sin dal tempo dei romani, “trappeto” (da trapetum) ed era collocato in cavità sotterranee dove la temperatura si manteneva costante anche d’inverno e nascondeva quel prezioso prodotto alla vista di eventuali briganti. Sappiamo che l’olio inizia a solidificarsi a 10° C circa e diventa quasi solido a 6° C. Era necessario quindi avere locali tiepidi per la lavorazione delle olive e nel sottosuolo la temperatura si manteneva costante, di 15° C circa, sia d’estate che d’inverno. L’oscurità degli ambienti proteggeva infine il liquido ottenuto. Gli antichi frantoi mostravano la fatica e la paziente cura dei nostri antenati nel ricavare e custodire quegli ambienti fatti di penombra e di silenzio a somiglianza di edifici religiosi.
A Mola i trappeti erano quindi collocati all’interno di ipogei (locali sotterranei; da “ypo”= sotto e “gaia”= terra): alcuni naturali e non erano altro che le primitive abitazioni dei nostri antenati; altri ricavati nel tufo col duro lavoro. I contadini scaricavano le olive dal carro in un pozzetto comunicante con il frantoio ipogeo. I frantoiani prelevavano le olive con una pala e mettevano il frutto nel mortaio. Il mulo faceva girare continuamente la mola e dal mortaio usciva un primo liquido che si raccoglieva in un’apposita cisterna. La pasta macinata era prelevata ad ogni passata da altri frantoiani, i quali riempivano i fiscoli – sovrapposti in un palo e schiacciati con un torchio – che liberavano altro olio versato in una seconda cisterna; alla base di quest’ultima vi era un rubinetto tramite il quale si poteva separare “l’acqua di spremitura” utile per fabbricare il sapone (altro prodotto caratteristico del nostro paese). Nel trappeto era presente anche un pozzo per la raccolta della morchia, un pozzo con un foro sul fondo che lasciava passare il liquido di scarto verso il mare od altra cavità sotterranea. La morchia priva del liquido di scarto era la sansa (sanze) dalla quale si estraeva altro olio per usi non alimentari. Il residuo (nnozze) veniva passato in un forno per ottenere la carbonella da mettere nel braciere (frascire) attorno al quale si radunava d’inverno tutta la famiglia.
Gli antichi frantoi sotterranei furono utilizzati fino a tutto il 1800 e si trovavano nelle strade ora note come Via Principe Amedeo, via Regina Margherita, via Trento e nelle piazze dei Mille, San Domenico e Risorgimento.
Tante famiglie a Mola hanno avuto un parente che faceva di mestiere il “nagghiero” (nachière), in pratica il capo operaio che lavorava nel frantoio guidando le varie fasi della lavorazione; un termine derivato dalla parola latina “nauclerii” che si ritrova in antichi documenti per identificare gli operai degli antichi frantoi: …”cripta in qua fixum est ipsum tarpetum est foris istium civitatis Monopolis in loco Paterni, iuxta criptam cum tarpeto nauclerii Sconri patrui mei ex parte maris…” (G: Coniglio, Le Pergamene). Il termine latino “nauclèrus” derivava a sua volta dal greco “nayklèros” e si riferiva al nocchiero della nave: straordinaria coincidenza in un paese a vocazione marittima!
Un frantoio ipogeo esistente in Piazza dei Mille fu trasformato ed adibito – qualche tempo fa – a pizzeria. Furono lasciati integri gli ambienti originari e messi in bella mostra alcuni degli attrezzi utilizzati nella produzione dell’olio.
L’ipogeo di Piazza Risorgimento è isolato da una recinzione di ferro alla sommità delle scale. E’ sempre chiuso e non vi sono cartelli di riferimento per un’eventuale richiesta di visita; all’interno del recinto è possibile notare soltanto carte, rifiuti, lattine vuote e così via. Un ipogeo molto grande con ambienti interessanti (nicchie per la conservazione delle olive, pilastri di sostegno con incise tante croci forse per annotare le quantità, volte rinforzate per sostenere il peso della strada sovrastante, corridoi che portavano in altri ipogei ormai scomparsi), ma poco apprezzato e certamente trascurato.
L’olivo ha caratterizzato tutta la storia degli abitanti della nostra terra in un arco di tempo non inferiore ai diecimila anni. Dalla pianta autoctona i nostri antenati ricavarono una varietà eccezionale in grado di produrre olio di qualità superiore. Impararono a lavorare le olive, inizialmente con l’uso delle mani, in seguito utilizzando vasche e mole di pietra azionate dall’uomo e quindi da un mulo. La pasta di olive frantumata dalla mola era posta nei “fiscoli” che i nostri funai confezionavano. Il termine molese era fèschele e derivava dal latino fisculus; era quindi un cesto di giunco, schiacciato e con un foro al centro, realizzato dai zuchelêre (coloro che lavoravano la corda (zauche). Lo stesso nome della nostra città, per altra singolare coincidenza, corrisponde all’attrezzo usato per schiacciare le olive e ricavare l’olio!
La “normativa del disciplinare di produzione della denominazione di origine controllata dell’olio extravergine di oliva Terra di Bari, accompagnata dalla menzione geografica aggiuntiva Murgia dei Trulli e delle Grotte”, è riservata all’olio extravergine di oliva ottenuto dalla varietà di olio Cima di Mola presente negli oliveti per il 50% (D.M. 4 settembre 1998 – G.U. n. 227 del 29 settembre 1998). In tutte le ricette a base di pesce viene sempre consigliato l’uso dell’olio extravergine ottenuto dalla Cima di Mola.
Ciò nonostante, tutta la tradizione che legava Mola alla civiltà dell’olio è un ricordo evanescente. Molti non parlano più della varietà “Cima di Mola”, definendola piuttosto come “Ogliarola”. Dei mestieri caratteristici legati alla lavorazione dell’olio non esiste neanche il ricordo. Soltanto le persone di una certa età rammentano come, a partire dal mese di novembre, i contadini lasciavano fuori dell’uscio uno o due sacchi delle olive raccolte durante il giorno, in attesa che passassero i facchini (vastêse) che acquistavano il prodotto per conto dei proprietari dei frantoi e pesavano i sacchi con una stadera (bilancia con un gancio per appendere il sacco ed un lungo braccio graduato sul quale scorreva un anello di ferro). Per strada era facile sentire frasi come questa: “agghie vennêute alli vastêse, ca statagghie, nu candêre de lègghie (ho venduto ai facchini, con la stadera, un quintale di olive).
Molti non hanno mai visto com’erano gli antichi attrezzi usati nei trappeti. Le amministrazioni comunali non hanno mai pensato di allestire un museo della civiltà contadina, nonostante le sollecitazioni e le pressioni di Enzo Linsalata. Un museo da sistemare in qualche palazzo storico od edificio religioso non più utilizzato come tale per mettere in mostra le centinaia di attrezzi adoperati dai nostri antenati per la coltivazione e la conservazione dei prodotti della terra: aratri con vomere in ferro o in legno (per rompere il terreno o tracciare solchi), erpici (per frantumare le zolle dopo l’aratura), falci (per il taglio dell’erba), forconi (per la raccolta del fieno), pietre molari (per affilare gli attrezzi), roncole (per il taglio dei rami), finimenti per animali (selle, staffe, testiere, capezze, redini, morsi, imbragature, martigale, pettorali), torchi per l’uva, macine per le olive e così via.
Ormai è troppo tardi per ripensare un futuro diverso per una Mola distratta ed indifferente verso il suo passato e le sue tradizioni. Nelle campagne rimangono i solitari testimoni delle epoche lontane, gli ulivi secolari contorti e piegati su se stessi in un dolore infinito, nel timore di essere estirpati per essere portati in luoghi lontani e sconosciuti, separati da quegli abitanti che usarono verso di loro tanta cura e tanto amore.
è una bellissima iniziativa! spero di esserci! 🙂
Ho letto il nuovo libro di Berlingerio che tratta dell’ulivo e della sua storia. Un libro è sempre interessante, ma il testo così striminzito mi ha lasciato un pò perplesso. Per i lettori di “Città Nostra”, per rinnovare l’amore verso un prodotto che ha sempre caratterizzato la nostra storia, ripropongo comunque l’articolo pubblicato sul n. 48 del novembre 2006:
LA CIMA DI MOLA
Abbiamo assistito quest’anno ad un’altra sagra estemporanea, quella della patata, dimenticando che la “sagra” dovrebbe esaltare un prodotto tipico della produzione locale: non è forse meglio parlare di una sagra della patata a Polignano, come quella dell’uva a Rutigliano e Adelfia, della cipolla ad Acquaviva, della ciliegia a Turi e Conversano, del cardoncello a Gravina e Altamura, della zampina a Sammichele? C’era una volta la sagra del polpo di Mola, ma ora sarebbe meglio parlare della sagra del polpo giapponese, poiché le quantità pescate in zona sono insufficienti per un consumo di massa ed il prodotto offerto durante la manifestazione è tutto d’importazione. Eppure nel nostro paese esiste un altro prodotto veramente tipico di cui pochissimi ne parlano, una varietà d’ulivo nota ed apprezzata in tutto il mondo: “la Cima di Mola”. Se l’ulivo è considerato una pianta sacra che rappresenta il simbolo dell’evolversi della specie umana, Mola ha espresso certo una tappa di quel lungo cammino di civiltà, al centro di una regione con terreni poveri e con scarsa acqua, dove era necessario ottenere od inventare una specie fruttifera che non richiedesse tanta acqua e che con le sue radici fosse in grado di camminare sottoterra alla ricerca di quelle sostanze carenti in superficie. La pianta assomigliava ai nostri poveri contadini costretti ad operare dall’alba al tramonto sotto il sole ed al gelo dell’inverno: era rugosa, contorta, spesso straziata e con lunghe ferite sul tronco. Un tronco imponente con forme uniche, come a rappresentare artistiche sculture modellate dal tempo e dal sacrificio degli uomini.
L’ulivo è stato sempre presente nella Terra di Mola da circa diecimila anni. Noccioli sono stati scoperti nei ritrovamenti preistorici della grotta di Cala Colombo e del sito di Scamuso, entrambi tra Torre a Mare e Mola. E’ possibile che l’ulivo si sia evoluto insieme agli abitanti della Terra di Mola, dalla sua forma spontanea (oleaster) alla pianta generosa (Olea Europea) che procura all’uomo l’olio, quell’alimento straordinario che sembra d’origine divina. Dominique-Vivant Denon, allontanandosi da Mola, attraversò un “delizioso boschetto di mirti” ed una campagna piena di grandi alberi d’ulivo: “Giungemmo poi ad una grandissima foresta di ulivi. Da molto tempo non vedevamo alberi, cosicchè un bosco di grandi ulivi ci sembrò una cosa meravigliosa”.
La prima coltivazione dell’ulivo si ebbe in Asia Minore e si diffuse – seguendo “la rotta della civiltà”- in Mesopotamia, nell’antico Egitto, a Creta, nella Grecia e quindi nell’Europa mediterranea. E’ ammissibile tuttavia l’ipotesi che in Europa sia stata ottenuta la pianta da olio (Olea Europea) dalle forme spontanee (oleaster). Esistono piante antichissime: nei pressi di Atene si trova il cosiddetto “ulivo di Platone” con un’età superiore ai duemila anni.
Da sempre l’ulivo è stato al centro di tradizioni, miti e leggende: nel podere di Adamo vi erano un ulivo, un cedro ed un cipresso; la fine del diluvio fu annunciata a Noè da un ramo d’ulivo portato da una colomba; il faraone d’Egitto donava al dio Rà i suoi oliveti per estrarre l’olio per le lampade del santuario; la dea Atena regalò una pianta d’ulivo a Giove nella contesa con Poseidone, il dio del Mare; nella Domenica delle Palme i cristiani si scambiano un ramoscello d’ulivo. Per i Greci l’olivo era considerato una pianta sacra e chi la danneggiava o la sradicava subiva per punizione l’esilio. Omero chiamava l’olio “oro liquido”. L’olio d’oliva è usato nel battesimo, nella consacrazione dei sacerdoti, nell’estrema unzione e per il sacramento della cresima.
L’olio quindi è stato utilizzato da millenni non soltanto come cibo, ma anche per curare malattie, per alleviare il dolore delle ferite, per la bellezza degli atleti, come dono di nozze, per alimentare le lampade, per i riti sacri.
Quando la pianta giunse in Europa si diffuse soprattutto in Puglia dove trovò il suo habitat ideale, insieme alle forme spontanee. Il grande poeta latino Ovidio, parlando della Puglia (la terra dove le “grotte si perdono nelle ombre dei boschi”), raccontò che un pastore fece fuggire da quella terra le ninfe, insultandole, e che per punizione fu avvolto da una corteccia ruvida e divenne albero selvatico d’ulivo (oleastro).
Gli abitanti della Terra di Mola erano grandi conoscitori della pianta selvatica (l’oleastro) che cresceva nel proprio territorio e che dava piccoli frutti amari (la desinenza “aster” o “astrum” dà il senso peggiorativo del termine). Furono operati innumerevoli riadattamenti delle piante fino ad ottenere un albero molto vigoroso che dava un frutto piccolo ed asimmetrico, di colorazione nera e lucente, con una soddisfacente resa di olio, dolce e fruttato, dal colore giallo intenso e caratterizzato da un aroma fresco erbaceo e da un gusto dolcissimo, con retrogusto soave. Una pianta, inoltre, che resisteva alla siccità e all’attacco dei parassiti. Quella varietà (cosiddetta “cultivar”) – che vive e prospera bene sulle zone litoranee – fu conosciuta ovunque come “Cima di Mola” e fu introdotta in tanti altri posti per ottenere olio squisito.
Forse inizialmente gli abitanti della nostra terra ricavavano l’olio con una semplice spremitura dei frutti, avvolgendoli in un panno. In seguito – a partire dal secolo XVI – fu usata un mortaio nel quale erano messe le olive da schiacciare mediante una macina, azionata a mano in senso verticale ed in un secondo momento fatta girare attorno ad un asse di legno. Il mortaio era di pietra con una fessura per far cadere il liquido in un recipiente; la macina (mola) era una poderosa ruota di pietra con un foro al centro, nel quale era conficcato un palo, quest’ultimo collegato ad una trave verticale sulla quale era piantata una stanga orizzontale per far girare il tutto e schiacciare le olive. La stanga era spinta inizialmente dall’uomo e successivamente da un mulo o da un asino.
Al tempo dei Greci e dei Romani si distinguevano due tipi di frangitura delle olive: la mola olearia ed il trapetum. La mola olearia era composta da una base rotonda e fissa; al centro era incastrato il braccio di una macina a ruota che girava intorno al suo asse; la macina era fissata all’asse in modo che la sommità fosse mobile per non schiacciare i noccioli delle olive. Il trapetum era composto da una grossa pila in pietra o mortaio in cui, intorno ad un piccolo asse verticale, giravano due macine semisferiche. Fra tutte le piante l’ulivo era quella più pregiata. Lucio Giunio Moderato Columella (4 d.C.- 70 d.C.) nella sua opera De Re Rustica affermò: “Omnis tamen arboris cultus simplicior quam vinearum est longeque ex omnibus stirpibus minorem inpensam desiderat olea, quae prima omnium arborum est” (La coltivazione di qualunque albero, per dire il vero, è più semplice di quella della vite, e fra tutte le piante l’olivo è quello che richiede spesa minore, mentre tiene tra esse il primo posto).
In Puglia il frantoio (il locale dove si “frange”) fu chiamato, sin dal tempo dei romani, “trappeto” (da trapetum) ed era collocato in cavità sotterranee dove la temperatura si manteneva costante anche d’inverno e nascondeva quel prezioso prodotto alla vista di eventuali briganti. Sappiamo che l’olio inizia a solidificarsi a 10° C circa e diventa quasi solido a 6° C. Era necessario quindi avere locali tiepidi per la lavorazione delle olive e nel sottosuolo la temperatura si manteneva costante, di 15° C circa, sia d’estate che d’inverno. L’oscurità degli ambienti proteggeva infine il liquido ottenuto. Gli antichi frantoi mostravano la fatica e la paziente cura dei nostri antenati nel ricavare e custodire quegli ambienti fatti di penombra e di silenzio a somiglianza di edifici religiosi.
A Mola i trappeti erano quindi collocati all’interno di ipogei (locali sotterranei; da “ypo”= sotto e “gaia”= terra): alcuni naturali e non erano altro che le primitive abitazioni dei nostri antenati; altri ricavati nel tufo col duro lavoro. I contadini scaricavano le olive dal carro in un pozzetto comunicante con il frantoio ipogeo. I frantoiani prelevavano le olive con una pala e mettevano il frutto nel mortaio. Il mulo faceva girare continuamente la mola e dal mortaio usciva un primo liquido che si raccoglieva in un’apposita cisterna. La pasta macinata era prelevata ad ogni passata da altri frantoiani, i quali riempivano i fiscoli – sovrapposti in un palo e schiacciati con un torchio – che liberavano altro olio versato in una seconda cisterna; alla base di quest’ultima vi era un rubinetto tramite il quale si poteva separare “l’acqua di spremitura” utile per fabbricare il sapone (altro prodotto caratteristico del nostro paese). Nel trappeto era presente anche un pozzo per la raccolta della morchia, un pozzo con un foro sul fondo che lasciava passare il liquido di scarto verso il mare od altra cavità sotterranea. La morchia priva del liquido di scarto era la sansa (sanze) dalla quale si estraeva altro olio per usi non alimentari. Il residuo (nnozze) veniva passato in un forno per ottenere la carbonella da mettere nel braciere (frascire) attorno al quale si radunava d’inverno tutta la famiglia.
Gli antichi frantoi sotterranei furono utilizzati fino a tutto il 1800 e si trovavano nelle strade ora note come Via Principe Amedeo, via Regina Margherita, via Trento e nelle piazze dei Mille, San Domenico e Risorgimento.
Tante famiglie a Mola hanno avuto un parente che faceva di mestiere il “nagghiero” (nachière), in pratica il capo operaio che lavorava nel frantoio guidando le varie fasi della lavorazione; un termine derivato dalla parola latina “nauclerii” che si ritrova in antichi documenti per identificare gli operai degli antichi frantoi: …”cripta in qua fixum est ipsum tarpetum est foris istium civitatis Monopolis in loco Paterni, iuxta criptam cum tarpeto nauclerii Sconri patrui mei ex parte maris…” (G: Coniglio, Le Pergamene). Il termine latino “nauclèrus” derivava a sua volta dal greco “nayklèros” e si riferiva al nocchiero della nave: straordinaria coincidenza in un paese a vocazione marittima!
Un frantoio ipogeo esistente in Piazza dei Mille fu trasformato ed adibito – qualche tempo fa – a pizzeria. Furono lasciati integri gli ambienti originari e messi in bella mostra alcuni degli attrezzi utilizzati nella produzione dell’olio.
L’ipogeo di Piazza Risorgimento è isolato da una recinzione di ferro alla sommità delle scale. E’ sempre chiuso e non vi sono cartelli di riferimento per un’eventuale richiesta di visita; all’interno del recinto è possibile notare soltanto carte, rifiuti, lattine vuote e così via. Un ipogeo molto grande con ambienti interessanti (nicchie per la conservazione delle olive, pilastri di sostegno con incise tante croci forse per annotare le quantità, volte rinforzate per sostenere il peso della strada sovrastante, corridoi che portavano in altri ipogei ormai scomparsi), ma poco apprezzato e certamente trascurato.
L’olivo ha caratterizzato tutta la storia degli abitanti della nostra terra in un arco di tempo non inferiore ai diecimila anni. Dalla pianta autoctona i nostri antenati ricavarono una varietà eccezionale in grado di produrre olio di qualità superiore. Impararono a lavorare le olive, inizialmente con l’uso delle mani, in seguito utilizzando vasche e mole di pietra azionate dall’uomo e quindi da un mulo. La pasta di olive frantumata dalla mola era posta nei “fiscoli” che i nostri funai confezionavano. Il termine molese era fèschele e derivava dal latino fisculus; era quindi un cesto di giunco, schiacciato e con un foro al centro, realizzato dai zuchelêre (coloro che lavoravano la corda (zauche). Lo stesso nome della nostra città, per altra singolare coincidenza, corrisponde all’attrezzo usato per schiacciare le olive e ricavare l’olio!
La “normativa del disciplinare di produzione della denominazione di origine controllata dell’olio extravergine di oliva Terra di Bari, accompagnata dalla menzione geografica aggiuntiva Murgia dei Trulli e delle Grotte”, è riservata all’olio extravergine di oliva ottenuto dalla varietà di olio Cima di Mola presente negli oliveti per il 50% (D.M. 4 settembre 1998 – G.U. n. 227 del 29 settembre 1998). In tutte le ricette a base di pesce viene sempre consigliato l’uso dell’olio extravergine ottenuto dalla Cima di Mola.
Ciò nonostante, tutta la tradizione che legava Mola alla civiltà dell’olio è un ricordo evanescente. Molti non parlano più della varietà “Cima di Mola”, definendola piuttosto come “Ogliarola”. Dei mestieri caratteristici legati alla lavorazione dell’olio non esiste neanche il ricordo. Soltanto le persone di una certa età rammentano come, a partire dal mese di novembre, i contadini lasciavano fuori dell’uscio uno o due sacchi delle olive raccolte durante il giorno, in attesa che passassero i facchini (vastêse) che acquistavano il prodotto per conto dei proprietari dei frantoi e pesavano i sacchi con una stadera (bilancia con un gancio per appendere il sacco ed un lungo braccio graduato sul quale scorreva un anello di ferro). Per strada era facile sentire frasi come questa: “agghie vennêute alli vastêse, ca statagghie, nu candêre de lègghie (ho venduto ai facchini, con la stadera, un quintale di olive).
Molti non hanno mai visto com’erano gli antichi attrezzi usati nei trappeti. Le amministrazioni comunali non hanno mai pensato di allestire un museo della civiltà contadina, nonostante le sollecitazioni e le pressioni di Enzo Linsalata. Un museo da sistemare in qualche palazzo storico od edificio religioso non più utilizzato come tale per mettere in mostra le centinaia di attrezzi adoperati dai nostri antenati per la coltivazione e la conservazione dei prodotti della terra: aratri con vomere in ferro o in legno (per rompere il terreno o tracciare solchi), erpici (per frantumare le zolle dopo l’aratura), falci (per il taglio dell’erba), forconi (per la raccolta del fieno), pietre molari (per affilare gli attrezzi), roncole (per il taglio dei rami), finimenti per animali (selle, staffe, testiere, capezze, redini, morsi, imbragature, martigale, pettorali), torchi per l’uva, macine per le olive e così via.
Ormai è troppo tardi per ripensare un futuro diverso per una Mola distratta ed indifferente verso il suo passato e le sue tradizioni. Nelle campagne rimangono i solitari testimoni delle epoche lontane, gli ulivi secolari contorti e piegati su se stessi in un dolore infinito, nel timore di essere estirpati per essere portati in luoghi lontani e sconosciuti, separati da quegli abitanti che usarono verso di loro tanta cura e tanto amore.