di Giovanni Miccolis

La Basilica del Santo oggi

Il Santuario di San Michele del Gargano, com’è noto, ha origini antichissime.  Nel 490 un pastore del luogo era alla ricerca del suo più bel toro che si era allontanato dalla mandria e lo trovò rintanato in una grotta inaccessibile. Non potendolo recuperare decise di ammazzarlo e gli scagliò una freccia che però tornò indietro senza toccare il toro e ferendo il mandriano.

 

Il fatto fu riferito a Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto, il quale, dopo un digiuno di tre giorni, fece un sogno, ed una voce gli disse: «Io sono l’Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia scelta, io stesso ne sono vigile custode. Là dove si spalanca la roccia, possono essere perdonati i peccati degli uomini. Quel che sarà chiesto nella preghiera, sarà esaudito. Quindi dedica la Grotta al culto cristiano».

Il vescovo era perplesso perché proprio in quella grotta si erano svolti in passato riti pagani celebrati dall’indovino Calcante e dal medico Podalirio; la visione quindi poteva essere un maleficio. Da rilevare anche che il Concilio di Laodicea del 336 aveva proibito il culto degli Angeli, nato in Oriente prima del Cristianesimo e diffuso tra le popolazioni cristiane.

Due anni dopo, durante un assedio dei barbari, il vescovo invitò il popolo alla preghiera. Riapparve di nuovo l’Arcangelo promettendo vittoria sul nemico. E così fu: una pioggia di sabbia e grandine si abbatté sui nemici mettendoli in fuga.

Il vescovo, confuso dagli eventi miracolosi che si erano succeduti, chiese lumi al papa Gelasio I, il quale gli ordinò di entrare nella grotta dopo un digiuno di penitenza e di dedicare il luogo all’Arcangelo Michele.

Lorenzo Maiorano eseguì scrupolosamente le istruzioni ma, entrato nella grotta, trovò nel masso all’ingresso della stessa l’impronta di un piede simile a quella di bambino e nel fondo dell’antro un grande masso somigliante ad un altare.  Ancora una volta gli apparve l’Arcangelo, il quale gli assicurò che la grotta era già consacrata con la sua presenza.

La grotta – santuario di S. Michele

Il vescovo lasciò inalterato quel luogo sacro e ordinò la costruzione di una chiesa all’ingresso della grotta, tempio che fu dedicato all’Arcangelo il 29 settembre 493.

I primi pellegrini furono i Longobardi che vedevano nell’Arcangelo un Dio guerriero e lo invocavano per la vittoria sui Bizantini. Delle visite al Santuario lasciavano un segno sui muri e sulle pietre, quale testimonianza della loro devozione che si univa all’impronta lasciata dal santo.

Anche i Bizantini furono visitatori assidui del Santuario e lasciarono preziosi doni, come l’icona in rame dell’ottavo secolo. Altre magnifiche successive donazioni scomparvero durante gli assalti dei Turchi, come le due statue dell’Arcangelo, una in oro e l’altra in argento.

Si aggiunsero, ad ogni modo, altre opere artistiche come la cattedra episcopale eseguita da Acceptus, contemporanea forse di quella celeberrima di Bari (cattedra di Elia). Nel 1076 il nobile amalfitano Pantaleone di Mauro fece dono di due porte bronzee con cesellati episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Continuarono visite e pellegrinaggi di imperatori, papi, condottieri e santi. Anche san Francesco si recò in visita al famoso santuario lasciando all’ingresso un graffito (riputandosi indegno di mettere il piede in quel Sacrario degli Angioli, impresse colla sua mano nel rozzo sasso della spelonca il segno della Croce in forma del Greco carattere Tau, il quale infino à nostri giorni si vede, ed è da’ Pellegrini con somma pietà venerato – ­ Pompeo Sarnelli: Cronologia de’ Vescovi et Arcivescovi Sipontini– Manfredonia, 1680).

Gran devoto dell’Arcangelo fu Carlo d’Angiò, il quale volle attuare una risistemazione del complesso. La grotta fu tagliata a metà e l’accesso fu realizzato con una grande scalinata, fiancheggiata da arcate laterali. Nel 1274 il re francese fece costruire anche un grande campanile.

Gli Aragonesi furono altrettanto generosi e Consalvo di Cordova commissionò al Sansovino una pregevole statua in marmo di Carrara.

Non lontana da Monte Sant’Angelo era Manfredonia, nuova sede del vescovado sipontino, circondata da terre paludose (Nel 1562 avvenne in Napoli, e nel Regno mortalità grandissima per lo contagio de’ catarri, cagionati dalla nebbia…Manfredonia patì più, che ogni altra Città, per la vicina palude- (P. Sarnelli: o.c.). Negli anni 1560-1562 Bartolomeo de la Cueva dei duchi di Albuquerque aveva fatto bonificare i terreni circostanti da maestranze romane che, come disse lo stesso  Sarnelli: “li quali designarono profondi canali perché le acque stagnanti divertissero altrove“.

Nel 1607 giunse a Manfredonia il nuovo arcivescovo Annibale Serugo de Gimnasiis di Castel Bolognese, il quale preferì starsene nella sua deliziosa residenza nei pressi di Monte Sant’Angelo, lontano dall’aria stagnante e malsana di Manfredonia. Al Santuario di san Michele regalò numerose reliquie di santi martiri, soprattutto papi (Alessandro I, Cornelio Romano e Felice I), che furono custodite in una apposita cappella.

Il vescovo Antonio Marullo (1643-1648) riadattò l’antico Ospedale dei Pellegrini fondato dal predecessore Alberto nel 1219.

Da 1649 al 1651 fu arcivescovo di Manfredonia il nostro concittadino Paolo Teutonico, il quale ebbe notevoli contrasti con il signore di Monte Sant’Angelo, l’arrogante barone Grimaldi (se ne parlerà in altra occasione).

Paolo Teutonico, dovendo amministrare la “mensa” vescovile dotata di notevoli estensioni date a grano, faceva ingaggiare moltissimi contadini nella Terra di Bari con il cosiddetto contratto di “antenerio”. L’antenerio si basava sul contatto locale (antenero) – a Mola era Giacomo Colella, coadiuvato dai fratelli Giustino e Nicola de Birardis – per l’ingaggio di contadini, a gruppi di cinquanta (la “paranza”), i quali s’impegnavano davanti ad un notaio di andare a mietere i campi del padrone dietro compenso di non più di dieci carlini per ogni “versura” di grano raccolto. Dagli atti notarili si ricavano le clausole di quel contratto infame. La paga era data una parte in anticipo ed il resto a mietitura ultimata. Era a carico del padrone una parte del vitto, consistente in acqua, cipolle, aglio, aceto, sale e talvolta anche vino. I mietitori dovevano comprare il pane ed il resto delle vivande. I poveri contadini dovevano “metere sia bascio et la ristoppia netta di spighe, ben germulate et ben legate le gregne [covoni]. Si trattava di una fatica bestiale che iniziava all’alba e finiva al tramonto: le spighe dovevano essere tagliate in basso (bascio) nei pressi della radice ed il corpo doveva rimanere quasi sempre piegato. Nel breve intervallo si consumava la “cialdella”, frugale pasto portato dal “buctero de massaria” con un carro che conteneva anche un otre pieno d’acqua per dissetare quei miserabili. Alla sera i contadini si stendevano su “lettere” (letti) di paglia in rifugi di fortuna.

La paga di quegli infelici subiva decurtazioni per cause che impedivano la mietitura: grandanata, malannata, danno de’ brucoli, guerra et poeste et ogni altro opinato seu inopinato, divino seu humano.

Prima di tornare al paese i contadini passavano dal Santuario dell’Arcangelo per una breve preghiera e proseguivano a piedi nel viaggio di ritorno che durava alcuni giorni.  Essi furono i primi pellegrini molesi che chiedevano al guerriero divino, prima del gravoso viaggio di ritorno, la forza sufficiente per il ritorno in famiglia. Giungevano sino al fondo dell’altare dove stillava acqua ritenuta miracolosa (Dalla parte sinistra dell’Altare di S. Michele stilla infino a’ nostri giorni acqua pregiatissima, per mezzo della quale la pietà de’ fedeli hà conseguito moltissime gratie…– Sarnelli, o.c.).

I nostri contadini si confondevano in un numero impressionante di pellegrini giunti da ogni parte d’Italia e d’Europa a dorso di mulo, ovvero a piedi, nel cammino di penitenza lungo vallate, costoni montani, precipizi e burroni, fino al monte Gargano («…in ascensu montis Gargani, ad quem ascendunt homines et asini per gradus in lapide duro», come disse un viaggiatore inglese).

Le visite al Santuario proseguirono senza sosta nei secoli successivi, anche due volte l’anno; viaggi compiuti dai nostri compaesani non più a piedi, ma con carri agricoli trainati da un asino o da un mulo. Sul carro prendeva posto tutta la famiglia in una fila interminabile d’altri carri e d’altri devoti.  

L’ultima parte del viaggio, la montagna di ottocento metri, era fatta a piedi dai più giovani e forti.

Col progredire dei mezzi di locomozione i pellegrinaggi furono compiuti con camion (sgangherati) dove i viaggiatori prendevano posto su panche di legno.

A San Michele con le biciclette

I giovani partivano in gruppo con le loro biciclette (in seguito motociclette) e tornavano con il loro mezzo di locomozione pieno di pennacchi e immagini del santo.

I devoti che varcavano la soglia del Santuario erano attratti dalle tante iscrizioni e segni lasciati nel tempo dai precedenti visitatori. Molti erano presi dalla frenesia di lasciare una loro testimonianza sulle strutture architettoniche del tempio: il portale, la scalinata angioina, le facce dei pilastri, le mensole, le arcate, gli spazi interni del campanile ottagonale, la stessa facciata della basilica, la chiesa e la cripta. Un modo certo riprovevole che danneggiava la bellezza ed il decoro del sacro luogo, ma voleva dare continuità all’uso iniziato dal Santo di marcare il luogo con la sua impronta e proseguito nel tempo. Le testimonianze lasciate erano varie: orme di calzature, impronte di mani, cuori con dediche, lettere iniziali di nomi e cognomi, scudi araldici ed emblemi, nomi di città o di località, iscrizioni votive, invocazioni e preghiere, croci di vario tipo, stelle a cinque punte.

Le scritte erano in tante lingue con caratteri anche runici. I segni erano incisi con un coltello, oppure dipinti con vernici o carboncino. A distanza di tanto tempo i simboli lasciati dai pellegrini hanno perduto il significato di offesa al sacro tempio e conservano un valore di testimonianza per comprendere il significato, lo stato d’animo e le sensazioni dei viaggiatori, l’intimo desiderio di lasciare la prova della loro devozione.

La medaglia del Giubileo – 1933

L’afflusso era frenetico dai paesi della Puglia e dalle regioni confinanti nel corso di ogni “Anno Santo” per beneficiare delle speciali indulgenze. Ed un Anno Santo Straordinario, detto “Giubileo della Redenzione”, fu proclamato nel 1933 da Pio XI per celebrare i 1900 anni dalla nascita “convenzionale” di Cristo.

Alcuni anni prima c’era stato il famoso Concordato del 1929 tra Stato e Chiesa, ma i rapporti tra Regime Fascista e Chiesa si deteriorarono notevolmente subito dopo. Mussolini fece chiudere i Circoli dell’Azione Cattolica ed a Bari Araldo di Crollalanza non ritenne di intervenire per proteggere sua sorella Gemma che presiedeva il Consiglio Diocesano della Gioventù Femminile Cattolica.

Nel corso del Giubileo della Redenzione si recarono in pellegrinaggio al Santuario, tra gli altri, il contadino molese Avella Gaetano e sua moglie D’Amato Grazia Rita e lasciarono un loro ricordo che fu rilevato nel corso delle indagini di Pierre Bouet e André Vauchez, inserite nel libro “Culte et sanctuaires de saint Michel dans l’Europe médiévale”, pubblicato in italiano con il contributo di Giorgio Otranto.

Il nostro concittadino disegnò a carboncino il contorno della mano sinistra sopra un’arcata della scalinata e scrisse all’interno: «AVELLA (gli autori parlano di “Avello”, cognome inesistente a Mola) GAETANO DA MOLA DI BARI 20 MAGGIO 1933 RICORDO». Anche sua moglie disegnò la sua mano sinistra, più minuta del marito, e scrisse all’interno la sua dedica che risultava poco leggibile: DA……DA MOLA DI BARI 20 MAGGIO 1933».

Quelle testimonianze sono andate perdute alcuni decenni fa per il rifacimento dell’intonaco, a seguito di lavori di pulitura, ristrutturazione e rinforzo della scalinata e dei nostri compaesani rimane soltanto il ricordo.

Si trattava di Avella Gaetano, nato a Rutigliano il 2 ottobre 1904, e che, dopo aver sposato la molese D’Amato Grazia Rita il 19 settembre 1925, si stabilì a Mola in via Regina Margherita 16.

La famiglia emigrò a Buenos Aires il 20 aprile 1936 e forse non fece più ritorno.

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