di Giovanni Miccolis
Parte I
Dopo i fatti del 1848 la repressione borbonica aumentò l’insofferenza diffusa tra gli intellettuali, professionisti e imprenditori, innescando una grossa carica di ribellione in tutto il Mezzogiorno e l’impresa di Garibaldi fu l’occasione per far nascere un’imminente rivolta.
Vitantonio De Cagno, noto sovversivo e liberale barese, era proprietario di alcuni trabaccoli che portavano olio ed altri prodotti pugliesi lungo la rotta Bari-Marsiglia-Palermo-Bari e seppe dai suoi marinai che nel mese di maggio 1860 due navi piemontesi, cariche di volontari con le camicie rosse guidati da Garibaldi, erano dirette in Sicilia.
Fogli clandestini provenienti da Potenza ed Altamura, città dove vi erano state ribellioni contro i gendarmi, riferivano anch’essi di una spedizione garibaldina in Sicilia. Notizie diffuse in gran segreto, perché ormai non potevano circolare libri, riviste, quotidiani e periodici non conformi al regime. Peraltro, sin dal 1853, il Ministro dell’Interno Salvatore Murena aveva imposto ai Comuni l’autorizzazione preventiva per l’acquisto di libri in conformità del Decreto del 6 novembre 1849 (“Decreto contenente delle prescrizioni circa l’introduzione, lo spaccio e la detenzione di libri, stampe ed oggetti figurati contrarii alla Religione, alla morale ed a’ Governi).
I proclami alla ribellione arrivavano comunque alle popolazioni meridionali. Garibaldi in un suo proclama scrisse agli “Abitanti del Napoletano”: “Tempo è d’imitare l’esempio magnanimo della Sicilia, sorgendo contro la più scellerata delle tirannidi. Alla razza spergiura e assassina, che sì lungamente v’ ha torturati c calpesti, sottentri alla fine il libero governo onde godono altri undici milioni d’Italiani, ed al turpe vessillo borbonico il glorioso vessillo dai tre colori, simbolo fortunato dell’indipendenza e dell’unità nazionale, senza le quali è impossibile libertà vera e durevole. I vostri fratelli del settentrione non ambiscono altro che l’abbraccio vostro al consorzio della famiglia italiana”.
Nel 1852, tra le persone allontanate dal Regno da parte dell’Intendente Ajossa, era Felice Garibaldi (1813-1855), fratello minore di Giuseppe, il quale era a Bari dal 1835 come dipendente di una ditta di esportazione di olio in Francia, la società “Avigdor” con sede sociale a Nizza e stabilimenti a Bari e Bitonto (A Bitonto nel 1828 il francese Pierre Ravanas aveva acquisito un vecchio frantoio per produrre olio con un nuovo metodo. All’esportazione di quell’olio fu interessato Federico Avigdor di Nizza che inviò in Puglia il suo dipendente Felice Garibaldi; quest’ultimo si mise anche in proprio rilevando un negozio a Bari nel 1851 dalla ditta “Fratelli Rocco”, sulla Strada della Marina [l’attuale Corso Cavour] che non aveva verso mare alcuna costruzione. Felice, un bel giovanotto alto e biondo, si era ammalato già prima dell’espulsione dal Regno delle Due Sicilie; andò a Nizza dove morì due anni dopo).
La repressione borbonica non era riuscita ad annientare i gruppi di liberali che tramavano contro il regime. Si trattava, in genere, di intellettuali, avvocati, medici, professionisti, artigiani e religiosi che avevano mezzi per seguire comunque gli avvenimenti nazionali ed europei e influenzavano le masse sulle prospettive di un nuovo governo del paese, sul miglioramento delle condizioni di vita, sulla distribuzione di terre ai contadini. Per convincere contadini e braccianti alla ribellione si faceva leva sull’odio spontaneo verso il padrone, protetto dalle leggi del sovrano. Lo stesso Garibaldi riteneva che i contadini si potevano arruolare in massa se fosse stato soddisfatto il loro “diritto alla terra”.
Nel capoluogo pugliese, comunque, i rivoluzionari erano ben pochi. I ricchi commercianti erano, in genere, devoti al Re che aveva dimostrato tanta simpatia per la città e che aveva permesso loro di vivere in tranquillità ed agiatezza.
Il comandante territoriale della gendarmeria in Puglia era il generale Filippo Flores (17/6/1809-11/9/1867), originario siciliano, al comando di due squadroni di carabinieri, uno squadrone di gendarmi a cavallo ed un battaglione di gendarmi a piedi. Egli era inflessibile nell’esecuzione degli ordini sulla repressione politica in tutta la provincia.
La tranquillità in città dopo l’arrivo di Garibaldi a Messina era solo apparente. I cospiratori, che negli anni precedenti avevano animato le vendite carbonare, erano irrequieti, ansiosi di nuove notizie, desiderosi di passare all’azione.
Il più intraprendente rivoluzionario barese era Nicola Gabriele Tanzi che nel1856, a seguito del rapporto dell’Intendente Mandarini, venne espulso dallo “Squadrone della Guardia d’Onore ammesso alla presenza del Re” e sottoposto a frequenti perquisizioni.
Verso la fine di maggio 1860 Tanzi si recò da De Cagno dicendogli: «ho ordinato delle stoffe pregiate a Nizza e vorrei sapere quando è previsto l’arrivo del trabaccolo di vostro fratello Beniamino». La richiesta suonò abbastanza strana all’armatore considerate le notizie già riferite dai suoi marinai. Dopo qualche giorno arrivò la barca in questione proveniente da Marsiglia carica di rotoli di stoffa, balle di cotone e zucchero, merce destinata ai negozianti di via Melo e di via Argiro. Tra le balle però vi erano volantini, giornali e comunicati che il“Comitato Centrale Insurrezionale” di Napoli aveva segretamente consegnato nel porto della capitale. I volantini erano a firma di Garibaldi il quale riferiva, tra l’altro: «al grido di sofferenza dei siciliani, che si sono sollevati in nome dell’Unità d’Italia, non ho esitato a mettermi alla testa della spedizione» e invitava la popolazione a «sostenere la lotta colla parola, coll’oro, coll’armi e soprattutto col braccio».
Il comitato napoletano aveva consegnato anche molti ritratti di Vittorio Emanuele II e Garibaldi che vennero sistemati in fusti di olio vuoti.
Gran parte del materiale fu consegnato a Tanzi. La polizia era in allarme, ma non riuscì a trovare il materiale pericoloso, sia nei magazzini dell’armatore che nell’abitazione del sovversivo.
Altre numerose notizie arrivavano dal “Comitato Centrale Pugliese” di Altamura sui progressi dei Mille in Sicilia. Luogo di smistamento delle missive segrete era la farmacia di Michele Brandonisio in via Melo.
I pochi rivoluzionari trovarono numerosi altri simpatizzanti desiderosi di avere nuove notizie sui clamorosi avvenimenti, in città e nei comuni della provincia.
A Gioia del Colle padre Eugenio Covelli, guardiano del Convento dei Cappuccini di Altamura, tenne una riunione il 17 luglio nel corso della quale si dichiarò decaduta la dinastia borbonica e si decise di passare all’azione non appena Garibaldi fosse sbarcato in continente.
Il 28 luglio a Putignano, presso il presidente del Comitato d’Azione barese, il medico Camillo Morea (1825-1891), seguì altra riunione nella quale si stabilì che occorreva trovare armi e che bisognava incitare le truppe regie a disertare. Il 15 agosto ad Altamura altra solenne riunione del Comitato Centrale nel corso della quale fu eletto presidente Luigi De Laurentiis, delegato alle più ardite iniziative. Il 18 agosto il segretario del Comitato Centrale Vincenzo Rogadeo (nato a Bitonto da antica famiglia ravellese) invitò Tanzi a partecipare alle loro attività ed il giorno dopo giunse notizia che Garibaldi era sbarcato in Calabria, a Melito di Porto Salvo.
La Basilicataera in fermento e squadre di rivoltosi si diressero a Potenza: un drappello comandato da Francesco Garaguso, una colonna al comando di Davide Mennuni, un’altra preceduta dal sacerdote Nicola Mancuso, una squadra di Giambattista Rabilotta, volontari con Rocco de Petruccellis, Nicola Albini e Pietro Bonari.
Tutti si misero agli ordini del colonnello Camillo Boldoni ed il 21 s’insediò a Potenza il cosiddetto “Governo Provvisorio” con “pro-dittatori” Nicola Mignogna (1808-1870) e Giacinto Albini (1821-1884).
Con la formazione di autorità dichiaratamente illegittime e rivoluzionarie i funzionari regi, anche di alto livello, si trovarono nella impossibilità di svolgere il loro mandato, mancando la protezione delle forze armate regolari e le opportune disposizioni del governo centrale. E così Cataldo Nitti (1808-1898), arrivando a Potenza per svolgere il compito di Intendente, si sentì offrire un “incarico di prestigio” nel Governo Provvisorio rivoluzionario. Immediatamente Nitti rifiutò e, non ritenendo di poter svolgere i suoi compiti governativi, rimise il mandato nelle mani del sindaco Luigi Lavagna e si allontanò dalla città. Il Tribunale, nel giudicarlo, ritenne che la sua condotta fu esemplare, tale da evitare inutili violenze (una condotta, peraltro, molto apprezzata dai nuovi “padroni” tanto che, con la nascita del Regno d’Italia, fu nominato Governatore della Provincia di Bari, quindi presidente del Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto, infine senatore del Regno).
Mignogna era in corrispondenza con Garibaldi. Il 31 luglio l’Eroe gli aveva scritto: “Caro Mignogna, io prima del 15 agosto spero di essere in Calabria. Ogni movimento rivoluzionario, operato nelle Province Napoletane, in questa quindicina, non solo sarà utilissimo, ma darà una tinta di lealtà in faccia alla Diplomazia, al mio passaggio sul Continente. Qualunque uffiziale dell’Esercito Napoletano, che si pronunzi pel movimento nazionale, sarà accolto fraternamente nelle nostre file, col proprio grado, e promosso, secondo il merito. Dite ai vostri prodi del continente Napoletano che, presto, saremo insieme a cementare la sospirata, da tanti secoli, Nazionalità Italiana”.
Nicola Mignogna, nativo di Taranto, era stato con i Mille di Garibaldi fino allo sbarco in Sicilia; ebbe poi dall’Eroe incarichi di servizio nel “continente”. Gli altri sette pugliesi che avevano fatto parte dei Mille erano: Filippo Minutilli (1813-1864) di Grumo, Moisè Maldacea (1822-1898) di Foggia, Guglielmo Gallo (1826-1896) di Molfetta, Giuseppe Fanelli (1827-1877) di Martina Franca, Vincenzo Carbonelli (1822-1901) di Taranto, Cesare Braico (1816-1887) di Brindisi e Tommaso Columbo (1844-?) di Bari (Francesco Raffaele Curzio, nato a Turi, era al momento della spedizione residente a Firenze e non fu considerato pugliese; con il Regno d’Italia fu eletto deputato nel collegio di Acquaviva).
(nei prossimi giorni la seconda parte)
Tanti meridionali hanno contribuito all’unità d’Italia.
Col senno di poi (ai nostri giorni), quel senso di unità tanto proclamato con il resto d’Italia si rivela sempre più un fallimento totale.
La vera riunificazione, l’ hanno fatta le due Germanie e non in 150 anni, ma in solo 10, senza bisogno di mercenari… annullando un divario tra est ed ovest assai più grave del nostro (nord – sud).
Se il Meridione non si sveglia, continuando a fare hara kiri, un giorno si parlerà del suo popolo, solo come di una razza estinta !!!
Pardon mi firmo, Giuseppe Brescia…
Grazie per questi riferimenti di ricostruzione storica: colgo quest’occasione , per fare una richiesta.
C’è qualcuno che può ricostruire , in modo documentato, la vicenda dell’assalto al Palazzo Noya, tra Piazza XX Settembre e via Van Westerhout ( forse nel 1799) e dire per quale motivo poi vennero murate le finestre in alto al 2° piano (mi pare). Sarebbe interessante capire se si trattò di scelta “edilizia” , oppure dettata da quello che avvenne. Grazie, ma non so a chi chiedere… .
Sui fatti del 1799 mi sono soffermato alcuni anni con l’articolo “Furore” del quale trascrivo la parte che riguarda specificatamente gli avvenimenti della nostra città:
……………
“ A Mola, intanto, vi era gran fermento e molti si mostrarono in pubblico con una vistosa nocca tricolore, nella mattina del 5 febbraio, l’ultimo giorno di carnevale. Altri invece preparavano in gran segreto una congiura che doveva colpire i notabili di Mola ed, in particolare, i Noya ed i Roberti. Così aveva deciso, infatti, notar Placido Lauro, già appaltatore del dazio e del vino per oltre venti anni, fino alla decisione del primo febbraio 1795 della Regia Camera della Sommaria, che aveva soppresso quel tributo. Sull’abolizione di quell’imposta si erano pronunciati favorevolmente i Noya ed i Roberti e questo fu l’inizio di un odio incontenibile. Contro le due predette famiglie notar Lauro aveva già nel 1798 tentato una sollevazione popolare, quando nella prima domenica di settembre Michele Baldassarre, per ordine del Luogotenente Raffaele Andriani, lesse il dispaccio reale che imponeva una leva forzosa, nella proporzione di otto soldati ogni mille uomini dei residenti, tra i 16 ed i 45 anni; Placido Lauro, sovrastando gli schiamazzi del popolo, affermò a gran voce che in quelle decisioni erano immischiati i Noya ed i Roberti.
La congiura, seppur segreta, era sul punto di fallire, perché i segreti sono una cosa difficile da custodire. Così Angelantonio Surdo, cameriere del notaio, confidò a suo figlio Francesco, parrucchiere, il complotto e quest’ultimo svelò la macchinazione alla sua cliente Anna Maria Pesce, moglie di Giuseppe Martinelli. Quest’ultimo, incredulo, volle accertarsi della grave notizia direttamente dal parrucchiere ed insieme uscirono nella piazza per capire meglio lo svolgersi degli avvenimenti e si rifugiarono in casa poco prima dei tumulti.
Diversi galantuomini si erano attardati in piazza davanti al palazzo Roberti, oltre le nove di sera, incerti sul da farsi di fronte allo strano andirivieni di gente, fatto insolito anche per l’ultimo giorno di carnevale. E poco prima del disordine molti riuscirono a raggiungere le loro case; altri si unirono ai rivoltosi ignari degli scopi dei capipopolo.
Due seguaci di notar Lauro avevano costretto il campanaro della Chiesa Matrice ed il legato della Maddalena a suonare a stormo le campane, così come si usava nei momenti di pericolo, per far convergere tutto il popolo molese sul luogo della rivolta. Ed infatti si presentarono in tanti, armati di roncole, schioppi, bastoni, asce, falci e coltelli.
Pietro Balzano, uomo fidato del notaio, era già in piazza con diversi armati. A lui si unirono i figli di Matteo Diomede, con i loro seguaci, che provenivano dalla città vecchia, armati e mascherati. I seguaci di notar Lauro divisero i congiurati in diverse bande per dare l’assalto ai palazzi degli odiati notabili.
Salustio di Salustio si era munito di arnesi da scasso dal falegname Giuseppe Galione e si diresse contro palazzo Roberti. Scardinato il portone si riversò una gran folla nell’atrio per dar fuoco alle altre porte e per rompere tutti i vetri delle finestre sul cortile. Sul prospetto della piazza si stava affrettando don Pietro Antonio Roberti a chiudere le imposte dei balconi e per poco non fu colto in pieno da una fucilata. Tornato frettolosamente nelle stanze, don Pietro Antonio fu ferito dal galessiere Pietro Suglia, ma fece in tempo a nascondersi con i suoi familiari, mentre alcuni individui bruciavano i registri del Catasto, della Decima e di tutte le Scritture dell’Archivio Comunale, altri si ubriacavano nelle cantine, altri ancora cercavano preziosi e denaro.
Verso la mezzanotte, quando ancora ardevano le porte ed i mobili del grande palazzo, ma i rivoltosi erano ormai scomparsi, i Roberti riuscirono ad allontanarsi con l’aiuto di don Giuseppe Caputo e si diressero a Lucera, per essere ospitati da don Vincenzo Candida e da sua moglie Maddalena Mazzaccara.
Fu lo stesso Salustio di Salustio a scardinare anche il portone del palazzo Noya incitando la folla che lo seguiva. Una moltitudine urlante si riversò nelle cantine, nelle stalle e nelle stanze per ubriacarsi e per fracassare ogni mobile alla ricerca di denaro e di preziosi. Vi fu una serie interminabile di litigi e di scontri tra gli stessi rivoltosi, ogni volta che veniva scoperta una borsa di monete od un oggetto di valore, anche tra i capi della rivolta, come avvenne infatti tra Pietro Balzano e Vito Rago.
Nelle ultime stanze trovarono il giovane Francesco Noya, di anni trentatré, con una borsa di monete in una mano ed un crocifisso nell’altra, che implorava pietà per la sua persona. Sebastiano e Matteo Diomede lo presero in mezzo e lo accompagnarono fuori del portone dove erano i rivoltosi più esagitati, con gli occhi fuori delle orbite per la gran quantità di vino che avevano bevuto. Fu Giovanni Diomede, cugino dei predetti, a colpire per primo lo sventurato, che cadde semivivo sul terreno umido; seguirono i calci ed i pugni di Sebastiano e di Matteo; alfine la Peppella, il figlio di Rocco Scarimbolo, prese il crocifisso e fracassò il cranio dello sventurato. Alcuni continuarono ad insultare il corpo martoriato, altri ritornarono nel palazzo per bruciare le carrozze.
Don Giuseppe Onofrio Noya era rimasto inebetito, seduto ed in silenzio tra i suoi libri, fino a che don Pasquale Dalba, seguace di notar Lauro ma estimatore del vegliardo, lo condusse al mulino per nasconderlo e sottrarlo alla carcerazione dei notabili, che stavano per essere condotti nel frantoio del Largo di San Domenico.
Nel mentre la notte avanzava le bande dei rivoltosi assaltavano gli altri palazzi. Vitantonio de Monte e Luigi Scarimbolo, con altri violenti individui, si scagliarono contro palazzo Pepe (passato dopo alla famiglia Mancini) ed uccisero don Domenico Pepe. Altri assalirono il palazzo Pinto-Renna (acquisito dopo dalla famiglia Introna). Altri ancora depredarono la casa di don Vito Russo, il palazzo Montini ed il palazzo Martinelli (passato in seguito alla famiglia Delfino Pesce).
Vincenzo Ruggiero si era diretto verso San Domenico per sorprendere il luogotenente Raffaele Andriani ed ammazzarlo, vendicando così l’arresto che aveva subito alcuni mesi prima. Ma il luogotenente si trovava per ragioni di lavoro a Monopoli: questo valse la sua salvezza, ma la condanna del suo subalterno Michele Baldassarre.
Pietro Balzano fece prelevare dalla cappella di sant’Antonio Abate, nei pressi della piazza, due cannoni per puntarli, uno verso palazzo Roberti, l’altro davanti al convento dei Padri Minori Osservanti, che fiancheggiava la chiesa di sant’Antonio da Padova.
Alle due di notte bruciavano ancora le case di don Nicola Maria Ruggiero e di Vito Tanza. Intanto, Pietro Balzano distribuiva ai suoi una lista delle persone da incarcerare e nelle ore successive vi fu un mesto pellegrinaggio di persone singhiozzanti, trascinate a strattoni, verso il trappeto di San Domenico. Alle sei di mattina tutti i “designati” erano rinchiusi nelle carceri improvvisate e venne letto il solenne decreto che condannava tutti alla fucilazione.
Era il primo giorno di quaresima e l’Arciprete, accompagnato da altri sacerdoti, chiese un atto di clemenza. Allo stesso tempo don Carlo Rinaldi e numerosi familiari dei carcerati si presentarono con voluminose borse di denaro. Alle sante parole dei prelati, ma soprattutto alla vista di tanto denaro, i guardiani lasciarono liberi tutti i carcerati, fuorché Michele Baldassarre, il poveretto che mesi prima, per dovere d’ufficio, aveva letto il dispaccio reale sulla leva forzosa.
Nei suoi confronti fu stilato un nuovo decreto di condanna alla fucilazione ed immantinente Rocco Scarimbolo gli pose i “ceppi” ai piedi scalzi e lo trascinò nel mezzo della piazza dove era radunata una folla urlante. Sante Campanile, novello Pilato, si rivolse alla moltitudine per sapere cosa dovevano farne di quello sciagurato. E in tanti gridarono: “fucilatelo”.
Il condannato chiese prima di essere graziato, quindi un sacerdote per confessarsi, ma i “carnefici” gli negarono anche quest’atto di misericordia. Lo consegnarono quindi a dei brutti ceffi che, spingendolo, colpendolo con calci e pugni, sputandolo ripetutamente, lo trascinarono fino alla piazza, dove Vito Susca e la Papella gli tirarono due schioppettate. Il poveretto cadde sanguinante al suolo mentre tutti gli altri che avevano un fucile od uno schioppo gli sparavano contro rendendo il corpo irriconoscibile.
I rivoltosi, tra ubriacature ed abbuffate delle vivande sottratte nelle case dei notabili, continuarono a mantenere il paese in una grande confusione per tre giorni, mentre tante povere donne piangevano nei loro tuguri per il lavoro che sarebbe mancato ai loro figli, a giornata per conto dei galantuomini che, in quel momento di baraonda, avrebbero abbandonato certamente la coltivazione dei terreni.
Venerdì otto febbraio giunse la posta da Napoli ed i rivoltosi, alla notizia che Napoli era stata democratizzata, si uniformarono al “nuovo corso” mostrando la nocca repubblicana ed issando la bandiera tricolore sul Castello. Altri tagliarono un cipresso nel giardino dei Noya e piantarono “l’albero della libertà”. Davanti a quel nuovo simbolo Vito Rago, il 10 febbraio, si pose sopra una panca da pescivendolo e nominò la nuova Municipalità, formata da rivoltosi e borghesi”.
……….
Non so perché le finestre del secondo piano siano attualmente murate. La sig.ra Zoraide Noya, in un incontro di tempo fa, mi disse che il palazzo era in rovina e che si adoperò per ristrutturare e restaurare soltanto le stanze del primo piano. Non accennò ad avvenimenti particolari che possano aver determinato la chiusura delle finestre del secondo piano.
Veramente MILLE grazie: COLGO L’OCCASIONE PER CHIEDERlE SE CONOSCE ALTRI DATI DI QUEL sante campanile, CHE MI SEMBRA DI POTER RICONDURRE A QUELLO CHE POI FU IL COSTRUTTORE DI MOLTI “ISOLATI” DI SAN DOMENICO, VERSO LA FINE DELL’OTTOCENTO/INIZIO NOVECENTO.
ED ANCORA, SECONDO LEI è PLAUSIBILE CHE LE FINESTRE VENNERO MURATE PER VIA DELLO SCEMPIO E DELL’INCENDIO, IN SEGNO DI ETERNO LUTTO ?
grazie!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
PINO CASTELLANA
finalmente on-line un momento di storia molese che affascina…
grazie !!!
circa il costruttore degli isolati intorno a S.Domenico ricordo tal maestro Nicola Campanile fratello del geometra Vitangelo che abitava in via Manzoni; salvo si tratti del genitore di questi.
Quel Campanile Sante è il “Sandèèll” di cui ho letto altre cronache, era solo “il Pilato” che chiedeva al popolo cosa fare, oppure era “il boia” ?
Ci sono discendenti dei Noya (attendibili) a cui è possibile chiedere per le finestre murate del 2° piano?
Grazie!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Desidero partecipare a Pino castellana che può conoscere in maniera alquanto più approfondita le vicende del 1799 in Mola, attingendo a quanto da me pubblicato nel 1978 in merito, e contenuto nel libro “Pagine di storia molese”.
…Come ben sa Giovanni Miccolis, cui affettuosamente ricordo, ancora una volta, che le fonti bibliografiche vanno sempre citate!….
e chiacchiere non ce ne vogliono.!!!
tuttavia se il dottor Aniello Claudio Rago ci avesse resi edotti intorno alla domanda posta da Pino Castellana …
Sig. Miccolis, la mia giovane età ma soprattutto la scarsa conoscenza della storia del nostro paese in confronto a un valido storico come lei, fa sì che tante cose mi sfuggono. La mia domanda in questione è: la famiglia Noya è stata feudataria di Mola? Oppure risiedeva qui nel nostro paese ma non erano “titolari” di Mola? Ho sempre sentito citare i Noya come Baroni di Bitetto, ma essendo associati sempre a Mola non ho mai sentito o letto se, araldicamente, avessero un titolo anche qui da noi!
Forse poco c’entra col suo articolo, ma è una cosa che mi incuriosisce sapere!
La ringrazio per la sua eventuale risposta.
A np90
Gentile amico i Noya, come lei ha giustamente rilevato, non sono mai stati feudatari di Mola.
I feudatari sonoi stati altri come può rievare leggendo De Santis e Uva.
Se vuol sapere qualcosa di più dei Noya le invio un mio modesto articolo per “Città Nostra”:
“I NOYA
Consalvo di Cordova s’incaricò di scacciare i veneziani dalla costa pugliese. Al suo fianco era il colonnello di cavalleria Guglielmo Noya, anche nell’assedio di Mola che, dopo la liberazione, fu restituita ai Toraldo. Guglielmo, in cambio del suo valoroso contributo, ottenne “gran distese di terre coltivate ad ulivi, e tutti gli altri beni appartenenti al Provveditore Veneto fuggito” (De Santis) e si onorò di diventare cittadino di quel piccolo centro del regno napoletano.
Il colonnello era congiunto di Carlo di Lannoy (nato a Valenciennes nel 1487 e morto a Gaeta il 24 settembre 1527); signore di Senzelles nelle Fiandre; generale dell’Imperatore Carlo V (di cui fu anche amico e favorito), in sostituzione di Prospero Colonna; governatore di Tournai nel 1521; viceré di Napoli dal 1522 al 1524; conte d’Asti dal 10-2-1526; principe di Sulmona e Ortonamare dal 20-2-1526; ambasciatore in Francia; marito di Françoise de Mombel, che vendette la contea di Asti all’Imperatore nel 1532 in cambio di Nola, che in ogni caso lasciò per ottenere in cambio il ducato di Boiano, la contea di Venafro e la baronia di Prata Sannita; insignito del Toson d’oro, il suo stemma appare nel coro della Cattedrale di Barcellona. Il 24 febbraio 1525 Carlo di Lannoy fece prigioniero il re di Francia, Francesco I, nella battaglia di Pavia.
Di sicuro Guglielmo Noya aveva parenti in Barletta, Trani ed Andria, ma nel regno napoletano vi erano varie presenze d’immigrati con identico o similare cognome. Nel 1457 gli Aragonesi assegnarono come feudo il territorio di Latronico a Giovanello di Montemurro ed in seguito a Nicola De Noya. A Montemesola, Giovanni de Noya, con due diversi atti d’acquisto (il primo dell’anno 1464 e l’altro del 1468), divenne l’unico possessore dell’intero feudo. La frazione di Noha, situata circa 1 km. a sud-est di Galatina, sembra che avesse ereditato il suo nome dall’antica e nobile famiglia “de Noha” feudataria di Noha, Caballino, Villanova, Francavilla, Padula e Crucis Aschi (località tra Otranto e laghi Alimini). Grottaglie, tra i tanti, ebbe come feudatari Ippolita Pappacoda di Noya e Marcantonio Muscettola. Anche a Matera nel 1600: “La nobile famiglia Noia edificò e dotò per essi (Frati Carmelitani) una chiesa decente, che è l’attuale Chiesa del Carmine” (Morelli- Storia di Matera). Il cognome “Noya”, con le sue varianti, non apparteneva alla stessa famiglia, così come esistevano diverse città con nomi similari per l’origine greca (noa = vedere; villaggi situati in alture), per la posizione in terreni palustri (novia = termine medioevale, paludoso), per la derivazione dalla denominazione latina “domus nova” e quindi “noja”, “noha”, “noe”. Ad esempio: Noja in provincia di Bari, chiamata Noicattaro per non essere confusa con altre città omonime; Noya di Galizia, a trenta chilometri da Santiago di Compostela; il principato dello Stato di Noja (Lucania) che fu concesso nel 1600 a Fabrizio Pignatelli, marchese di Cerchiara.
I discendenti dei “de Lannoy” si unirono ad altre grandi famiglie del regno napoletano formando rami collaterali. Così, donna Caterina de Lannoy sposò nel 1566 Giovan Lorenzo Pappacoda, 1° marchese di Capurso dal 1558, signore di Noja e di Triggiano, governatore di Terra d’Otranto e Bari (morto nel 1576). Donna Cecilia de Lannoy (morta il 25 dicembre 1616), erede del Ducato di Boiano, sposò prima don Antonio Caracciolo dei principi d’Avellino e poi don Giovanni Carafa dei duchi di Noja, patrizio napoletano (autore della famosa “Mappa topografica della città di Napoli e dei suoi contorni”). Le fusioni portarono talvolta a cambiamenti dei cognomi per rappresentare ambedue le famiglie d’origine: Lannoy-Noya, Carafa-Noya, Magnani-Noya, Chiaia-Noya, Pappacoda-Noya.
I Pappacoda, d’origine francese, erano presenti a Bari, a Massafra, a Lacedonia, a Triggiano. Il più noto personaggio fu Artusio, figlio di Linotto, gran siniscalco durante il regno durazzesco di Ladislao e consigliere alla corte angioina. Ebbe dal Re Ladislao la baronia di Barbaro, sottratta ai Sanseverino a seguito della fallita Congiura dei Baroni, oltre ad alcuni altri feudi. Fu amico di Sergianni Caracciolo, amante della sorella di Ladislao, la futura regina Giovanna II d’Angiò (Giovannella). Sotto il regno di costei, Artusio rivestì la carica di Coppiere Maggiore. Della famiglia Pappacoda, la quale aveva costruito la propria posizione economica sul mare, si hanno notizie fin dal XI secolo: furono finanziatori di Carlo I (nel 1278) e di Roberto d’Angiò. Una famiglia che si estinse a Bari nel 1775 con il matrimonio di Anna Pappacoda con Giambattista Filomarino.
Nel 1729 don Nicola Pappacoda sposò Benedetta de Angelis, sorella ed unica erede di Carmine de Angelis, signore di Mesagne, di Carbonara e di Bitetto. Nel 1735 ereditò il feudo di Bitetto Nicola Pappacoda, già notevolmente indebitato verso numerosi creditori e nei confronti del Vicerè. A causa dell’insolvenza fiscale che durava sin dal 1696, la Real Camera Napoletana confiscò i beni di don Nicola e, nell’attesa della vendita, affittò il feudo dal 1731 al 1738 ad Antonio Carafa della Spina, duca di Montenegro. Fu autorizzata quindi la vendita del feudo all’asta pubblica col sistema della candela vergine, che si svolse il 21 agosto 1739, e con l’aggiudicazione a don Francesco Noya, residente in Spagna, per 61.000 ducati. Il titolo fu prima accordato al cugino, Sante Lanoya (cognome di evidente trasformazione dall’originario Lannoy), all’epoca residente in Bitetto con funzioni di vicario del vescovo Francesco Franco, ed in seguito, nel 1741, a Sante Noya, arciprete di Mola dal 1739 al 1758. Sante apparteneva ad una numerosa famiglia molese: era terzo dei dieci figli di Vito Noya. La famiglia molese era un “casato” insignito con il titolo di nobile: titolo antichissimo, il primo gradino dell’ascesa aristocratica, ben distinta dalla classe borghese e poteva fregiare la propria “casa” con un emblema o stemma. Quale famiglia nobile fu inclusa da Ferdinando I nel Sedile di Nido per il governo di Napoli (i sedili dei nobili erano cinque: Nido, Capuana, Montagna, Porto e Porta Nuova; a questi si aggiungeva il “Sedile del Popolo”).
La famiglia Noya continuò a risiedere in Mola, pur fregiandosi del titolo di “Barone di Bitetto”; elesse come abitazione cittadina il palazzo già appartenuto alla famiglia Teutonico e scelse per le funzioni religiose la chiesa di Santa Maria del Passo, nella quale fece erigere nel 1755 un altare dedicato alla Vergine Maria e nell’anno successivo rinnovò ed ampliò il sepolcro di famiglia. Nello stesso tempo, per il soggiorno estivo, rese più confortevole la Masseria del Gallinaro, che rientrava tra i beni del feudo di Bitetto e che si trovava nel territorio di Mola, a confine con Noja.
La tenuta del Gallinaro era stata costruita nel 1696 da don Donato Tiberi, signore di Bitetto, Binetto, Carbonara, Erchie e Mesagne (il registro “Regii Crediti” – sezione politica – vol. n° 46, fg. 93 e segg.- Archivio di Stato di Napoli – attribuisce la proprietà al feudatario Donato Tiberi di Bitetto dal 1696 al 1731); appartenne dopo a Carmine de Angelis, a don Nicola Pappacoda e quindi a Sante Noya (arciprete). La casina rustica fu ristrutturata ed ampliata dal discendente omonimo Sante Noya nel 1816, durante la peste che colpì la città di Noja, come risulta dal Colofone in latino, ancora oggi presente sulla facciata della ex stalla (il testo spiega che: “Sante de Noya, figlio di Francesco Guglielmo, cavaliere di Gerusalemme del baronato di Bitetto, padrone di questa villa rustica ed urbana, nell’anno 1816 della riconquistata salute…curò fosse fatta questa stalla per buoi con una piacevole terrazza…”).
Giuseppe Onofrio Noya rinnovò (o forse fece costruire) altra tenuta in territorio di Mola e verso Bari, che fu chiamata “Masseria dei Baroni Noya”, così come risulta dal Catasto Onciario di Mola del 1796 (Archivio di Stato di Napoli – carte 137, 138, 139, 182: Don France¬sco Noya, Barone di Bitetto, e per esso li suoi eredi, Giuseppe Onofrio e Vito Noya, possiede… nel luogo detto la Massaria dei Baroni Noya…”).
Dal primo barone di Bitetto, don Francesco Noya, e da Colomba Scognetti, nacque a Mola il 12 febbraio 1728 Giuseppe Onofrio, che fu uno dei 22 canonici del Capitolo Collegiale della Chiesa Matrice. Il titolo di barone apparteneva a suo fratello Santo, nato nel 1709. Il canonico fu un cultore di storia e d’archeologia, conoscitore eccellente del latino, del greco e dell’ebraico. In una sua memoria inedita del 1791, riportata da N. Uva nel Saggio Storico, si parla dei resti romani nella località Paduano: “Si vedono ancora in detto le fondamenta di un antico edificio formato con l’architettura dei Greci e Romani, il quale edificio dalla parte di mare era terminato da un porticato,…il pavimento del quale porticato era costruito alla mosaica, ossia a quel modo che i latini chiamavano Opus sectile…”. Amava passare gran parte del suo tempo tra i numerosi libri della sua biblioteca e sprofondato tra i documenti fu trovato dai francesi che avevano occupato il palazzo durante i fatti del 1799. Quando ancora non si erano verificati i tumulti del 1799, Giuseppe Onofrio consegnò 400.000 ducati e tutta l’argenteria di famiglia alla Badessa del Monastero di San Benedetto di Conversano, certo che i rivoltosi non avrebbero mai potuto violare quel convento. Con la restaurazione fece parte del primo Consiglio Generale della Provincia di Bari.
Il gentiluomo molese sopravvisse dopo la furia devastatrice dei rivoltosi che massacrarono suo nipote Francesco, ma non resistette alla notizia del rifiuto delle monache di restituire i suoi beni e morì il 18 febbraio 1813.
Da Vito Noya e da Nicoletta Lamberti nacque a Mola il 27 set¬tembre 1808 Francesco: “…eletto Sindaco dì Mola nel 1839, si se¬gnalò per onestissima e saggia amministrazione, nella quale particolar mira di lui fu il migliora¬mento intellettuale della patria. Nel 1846 riapri le già, fiorenti Scuole Tanzi, chiamando all’ insegna¬mento delle lettere Domenico Volpe, ed a quello delle matematiche e della filosofia Luigi Russo, uomini ambidue di alta e meritata fama. Nel 1848, cospiratore, e Segretario della Dieta Provìnciale, do¬po che la reazione borbonica ebbe trionfato, rifiutò sdegnosamente la libertà, che l’autocratico Ajossa gli prometteva come premio di un vilissimo tradi¬mento, e contentossi dì sopportare una prigionia condita da amarezze ed insulti indicibili. Dichiarato dopo due anni innocente, non cessò con generoso coraggio di cospirar per la patria oppressa, finchè la sua redenzione non fu un fatto compiuto: -allora, quando avrebbe potuto, non mestò per ottenere ufficii elevati, nè li ambì; ma fu pago di esse¬re onorato della fiducia spontanea della patria, dalla quale s’era allontanato, con l’incarico con¬feritogli, e rinnovatogli finché ebbe vita, di rap¬presentarla nei Consigli della Provincia…Morì in Bari il 31 gennaio 1874”- De Santis, pagg. 165,166.
I fermenti e le insurrezioni nel Regno portarono alla reazione borbonica del 15 maggio 1848. Il Re Bomba Ferdinando II dichiarò di non voler abrogare lo Statuto emanato il 29 gennaio: si limitò semplicemente a non osservarlo. La Dieta di Bari non fu un’assemblea di cospiratori: era stata convocata per stabilire una guida delle forze liberali della provincia, per imporre al re il rispetto delle garanzie costituzionali ed allo stesso tempo per tutelare la quiete dei cittadini. Il processo riguardò 218 dei più noti liberali della provincia per: adunanze illecite, provocazione diretta mediante scritti e stampati, cospirazione, contravvenzione ai regolamenti sulla stampa. Francesco Noya fu dichiarato in stato d’arresto il 12 dicembre 1850 e l’intendente Ajossa approfittò per aggravare la sua posizione recapitando al Procuratore un documento abbastanza compromettente riguardante il Noya. La perizia calligrafica accertò tuttavia che la firma era falsa ed il nostro concittadino poté evitare maggiori conseguenze.
Sulla Dieta di Bari, Antonio Lucarelli disse: “Fra tali angosce chiudevasi la tentata rivoluzione del 1848-49. Destituita d’ogni simpatia popolare, intempestiva, infirmata dalle insanabili divergenze fra moderati e democratici, essa recava in seno i germi deleteri dei moti anteriori, e, perciò, s’infranse contro due insormontabili barriere: l’ignoranza e la miseria della classe proletaria, la cecità e l’egoismo della classe borghese”.
Don Francesco Noya fu consigliere provinciale, ma non riuscì ad essere deputato del Parlamento Italiano: fu eletto Francesco Raffaele Curzio di Acquaviva nel decisivo ballottaggio del 1862 (il molese ottenne 177 voti contro i 419 dell’antagonista). Egli fu anche a capo dell’amministrazione molese dal 1840 al 1843 e dal 1846 al 1850; prima di lui erano stati sindaci Vito Noya, dal 1813 al 1814, e Sante Noya nel 1816.
In seguito furono eletti sindaci Ferdinando Noya, dal 1870 al 1875, ed Ernesto Noya, dal 1879 al 1884 e dal 1889 al 1895. Durante l’amministrazione di don Ernesto furono compiute grandi opere pubbliche e fu realizzato il Teatro. Con decisione n. 1605 del 6 maggio 1892 il consiglio comunale deliberò di “darsi il nome Van Westerhout al nostro Teatro Comunale”. La sua morte suscitò grand’emozione non soltanto a Mola ma in tutta la provincia. Al funerale dell’11 maggio 1927 il podestà cap. avv. cav. Antonino Ficarra declamò le doti del defunto in un commosso discorso; tra l’altro disse: “…Il generale consenso col quale autorità e cittadini si sono affollati intorno alla bara che raccoglie le spoglie esanimi di Ernesto Noya non può significare solo pietà di congiunti e conoscenti, ma riconoscimento vivo e spontaneo delle sue intemerate virtù.. Mola l’ha fatta lui!… qui tutto parla di lui e della sua attività amministrativa. La pavimentazione stradale, la rete esterna di strade vicinali, la passeggiata a mare, il teatro, sono tutte opere da lui compiute, vincendo con animo fermo e risoluto avversità di ogni sorta”. Era presente anche suo nipote, il podestà di Bari Araldo di Crollalanza, nato a Bari il 19 maggio 1892, il futuro ministro dei lavori pubblici che realizzò altre opere pubbliche a Mola (Araldo era discendente da una nobile famiglia valtellinese stabilitasi a Bari nel XIX secolo. Giovan Battista di Crollalanza [1819-1892], fu il primo editore e fondatore dell’Annuario della Nobiltà Italiana; scrisse il Dizionario Storico Blasonico delle Famiglie Nobili e Notabili Italiane, Pisa, 1886. Goffredo di Crollalanza, fu il secondo editore dell’Annuario della Nobiltà Italiana, pubblicato a Bari; fu l’autore della celebre Enciclopedia Araldico-Cavalleresca- Pisa, 1878).
In una società profondamente maschilista le donne non avevano grandi ruoli. Maria Angelica Noya, figlia di Francesco Paolo e di Giacoma Mininni, fu mandata a studiare nel Monastero di S. Chiara e doveva essere “prelevata” al momento del matrimonio. Il rientro in famiglia non avvenne per i consigli del confessore della ragazza, mons. Ermenegildo Pepe (arciprete di Mola dal 1813 al 1817 e poi nominato vescovo di Larino poco prima della morte), e per una grave malattia che la indusse a rimanere all’interno del convento. Fu Maestra delle novizie e poi Badessa fino alla morte.
Da Ferdinando Noya e dalla marchesa napoletana Giulia Palmieri (famiglia presente a Martignano ed in altre città pugliesi), nacque nel 1881 Edgardo, che fu letterato insigne, storico appassionato, esperto d’araldica, brillante giornalista e saggista. Dal 1907 pubblicò sul Corriere delle Puglie interessanti articoli sulla storia della Terra di Bari. Sulla “chiesa-grotta” di S. Sebastiano, allora esistente nei pressi della chiesa di S. Maria del Passo, scrisse: “Qualche anno fa ho visitato alcune grotte al disotto del basolato di via S. Antonio a Mola, parlai poi con De Santis. La grotta visitata, che viceversa era una cella di monaci ba¬siliani, ha due altari, il primo a mezzogiorno, il secondo a le¬vante, scolpiti nel tufo. Sul primo di questo trovammo un trittico affresco bellissi¬mo, della scuola bizantina conservato abbastanza bene, rap¬presentante se non erro, una Madonna col Bambino, accom¬pagnata a destra ed a sinistra da due figure di santi, dei quali una doveva essere S. Basilio, l’affresco del secondo altare rap¬presentava S. Michele. Siamo stati a visitarlo quest’anno con un professore della università di Berlino che visitava i monumenti dell’epoca Sveva ed Angioina del Napoletano, per conto dell’imperatore Gu¬glielmo, ma non trovammo che piccolissimi frammenti tanto che ci fu impossibile poterli fotografare: l’umido li aveva com¬pletamente rovinati…”. Della villa romana a cala Paduano scrisse: “…« Di queste due (colonne), delle quali una ha diametro di m. 0,45 e l’altra di m. 0,51, si trovano rovesciate come sostegno di un muro a secco, l’altra sporge da esso per quasi mezzo metro e trovasi a una distanza di 0,88 dalla base cui era una volta unita. Le colonne hanno sulla base un incavo quadrato di m. 0,10 del quale ignoro lo scopo. Il mosaico poi è formato di pezzettini di marmo di una dimensione di m. 0,01 per m. 0,02 e sono messi due a due perpendicolarmente. Fac¬cio notare però che per una lunghezza di m. 3,70 all’ultimo tratto nord il mosaico cambia disegno e struttura; e men¬tre il primo è formato da pezzettini bianchi, neri e rosso mattone, il secondo è tutto bianco e composto di pezzet¬tini di un mezzo centimetro quadrato ». Articoli che Edgardo raccolse in volumi manoscritti col titolo di “Foglie sparse”. Avvalendosi della tipografia molese di Michele Contegiacomo pubblicò nel 1911 “La rivoluzione del 1799 a Mola di Bari” e nel 1912 il “Blasonario generale di Terra di Bari”, che rimane ancora oggi la guida indispensabile per lo studio di araldica del Regno di Napoli. Nominato membro della Reale Accademia Araldica Italiana si accinse a completare l’opera in tre grossi volumi di quasi 2000 pagine sulle “Famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra di Bari” (così come lo stesso Edgardo aveva indicato nella prefazione al Blasonario), ma improvvisamente morì nel 1912, quando aveva ancora 31 anni. Manoscritti del povero Edgardo che rimangono ignorati in qualche cassapanca di famiglia, degni tuttavia di una doverosa riscoperta, per essere pubblicati e portati a conoscenza dei cultori della storia meridionale”.
La ringrazio per la sua approfondita risposta sig. Miccolis!
Dal suo articolo, mi sorge spontaneo rilevare l’ingratitudine riservata per i due Noya citati da lei, ossia Ernesto e Edgardo. A Ernesto Noya viene dato il merito di aver fatto tante cose durante la sua amministrazione. A Edgardo va il merito di aver consegnato, tramite i suoi scritti, a noi posteri ampi spaccati sulla storia molese e non solo. L’ingratitudine a cui mi riferisco consiste nel fatto che a Mola non esiste una via intitolata nè a uno, nè all’altro, non riconoscendogli quindi la giusta memoria quali uomini illustri della nostra città.
Onore al merito! Voglio ricordare a chi non è a conoscenza che Giovanni Miccolis, socio fondatore dell’Associazione Culturale Città Nostra, redattore del mensile, propone ai lettori ininterrottamente dal 2002 le sue ricerche storiche, particolarmente apprezzate dai docenti delle scuole di Mola (e non solo), ma anche da tanti che amano conoscere le origini e le vicende della propria Terra. Prima del 2002 è stato prezioso collaboratore anche del mensile “La Sveglia”.
Direttore,
perchè non fare una sezione qui sul sito con tutte le ricerche e gli approfondimenti di storia della nostra città, sia dell’esperto sig. Miccolis e di altri che lo vorranno? Tante cose tra quelle citate dal sig. Miccolis sfuggono ai più, e sarebbe interessante averle sempre a portata di mano qui sul sito!
Penso sarebbe una bella idea!
Saluti!
Veramente grazie Dott. Miccolis per queste ricostruzioni.
Mio nonno ci teneva tanto a ricostruire la storia di famiglia, ma ha sempre trovato pochi documenti e adesso posso aggiungere questi articoli alla documentazione raccolta da lui.
E’ vero che nel palazzo Baronale è presente lo stemma con i 3 leoni? e’ visitabile? A settembre farò un piccolo giro con le mie figlie e sarebbe tappa divertente.
Grazie ancora,
Andrea Noya