di Vito Luigi Campanile

Bergamo di sera, Via Papa Giovanni XXIII

(…) Mi chiede dunque se io e la mia famiglia siamo disposti ad affittargli un appartamento, che i miei genitori comprarono anni fa, dove poter soggiornare per un mese. È l’unico modo per sventare la possibile trasmissione del virus ai genitori, preoccupato perché ritiene che in azienda sia molto probabile ammalarsi. Ammette di aver sottovalutato il virus, ammette che non ci aveva capito nulla.

Ora, guardandosi indietro, pensa – e io con lui – che quel venditore di Kebab doveva chiudere una settimana prima, perché così sarebbe stato giusto. Si è detto che il virus, come nel caso della morte della nonna di Stefano, è retrospettivo, ovvero provoca, scoperta la positività di qualcuno, la ricerca di chi può aver trasmesso il male, con un continuo scavare all’indietro alla ricerca del momento fatidico, del cogliere mentalmente – come se andando a segno si provasse piacere – quel benedetto “Ah, ecco, è in questo momento che è arrivato nel corpo!”.

Purtroppo, la ricerca del passato, di quel momento fatidico, avviene anche in caso di assenza di casi positivi in famiglia; basta che si sappia che il preside della scuola, dove insegna uno zio, si è ammalato, per far scattare l’indagine, quell’ennesimo “Quando l’ho visto io? Sono passati abbastanza giorni?”: diventiamo tutti ispettori meticolosi della nostra vita. Prima pensiamo a fare questo conteggio mentale all’indietro, e solo dopo ci ricordiamo, cogliendo in fallo noi stessi, di chi ha contratto il virus. “Ma come sta adesso? Dove è ricoverato?”.

Non è che diventiamo cattivi, è che ci frega l’allarme, la sirena che lampeggia in noi stessi, più lesta della premura verso gli altri, perché è troppo grande il timore di morire prima degli altri, e quindi ovviamente di non poter dar loro premure. Si è costantemente sul chi va là. Come se fossimo continuamente il guardiano del film di Troisi. “Chi siete? Sì ma quanti siete? Un fiorino”.
Gli ospedali sono interamente concessi ai pazienti malati di Coronavirus, chi aveva altre patologie per ora passa in secondo piano – tanto è vero che recentemente ho sognato che mio padre si ammalava di tumore e non poteva essere curato (e la notizia, nel sogno, me la comunica una ragazza con la quale i rapporti si sono terribilmente incrinati. Ciò conferma ancora una volta che il silenzio è presente ma terribilmente gravoso, coperchio di un pentolone pieno di inquietudine); Stefano, sofferente perché non sa quanto durerà la sua quarantena in relazione al virus contratto dalla nonna, “I medici sono in piena crisi, sono estenuati da capirci poco anche loro”; rinascono prepotentemente piccoli Karl Marx – il più feroce critico del Capitalismo –, i quali insorgono contro i padroni assassini delle fabbriche che sostengono che le aziende non si possono chiudere per evitare di perdere potere sul mercato favorendo la concorrenza; anche a Bergamo è facile riconoscere l’errore degli studenti fuori sede che sono tornati al Sud: che si annoiassero da soli nelle loro case bergamasche, meglio la noia che il Covid 19 ad altri italiani!

In mezzo a questo inferno c’è un momento che sfugge a molti, una terra di nessuno. Era ieri che un amico condivideva il video in cui si mostrava un auto della polizia esortare, con il megafono, la gente a stare a casa, e io ridevo assieme a lui per la stranezza; era ieri che, guardando l’annuncio di una virologa che biasimava tutti quanti coloro che si aggregavano nelle strade, quella donna appariva ai miei occhi scorbutica ed esagerata; era ieri che se fosse passata un auto della polizia sotto casa mia mi sarei allarmato, perché non è normale che passi un auto della polizia alle tre di notte con i fari bianchi accesi.
E mi sono ritrovato a non ridere più di quel megafono così bizzarro, a non percepire come antipatica la virologa che si lamentava del passeggio nelle vie del Centro Città, e appunto, ad accettare come normale la presenza della polizia sotto casa. C’è un buco nero in tutto questo. È per via di esso che si passa dall’altra parte. Si passa all’adilà. Passando al di là, non mi riferisco alla morte di chi se n’è andato e di chi se ne andrà. Mi riferisco al passaggio violento con cui ci adattiamo alla situazione. Una situazione che è cambiata improvvisamente, senza che noi ci siamo accorti come sia successo, e soprattutto cogliendo il cambiamento solo a posteriori.
Vuol dire che non l’abbiamo cambiata noi la situazione?
Assolutamente no. Siamo sempre noi che l’abbiamo modificata, e l’abbiamo modificata proprio non accorgendoci che la stavamo cambiando. Abbiamo attuato un cambiamento intorno a noi proprio perché non credevamo di farlo.
Anche il non saper di stare cambiando le cose, modifica le cose stesse.
Sono arrivato troppo tardi, se mi accorgo soltanto ora che la virologa che si lamentava aspramente non era scorbutica ma previdente: adesso appare ai miei occhi così previdente proprio perché prima risultava antipatica, quando invece era solamente nel giusto. Questo passaggio, così repentino, dall’antipatia alla previdenza, dall’asprezza alla saggezza, è causato da me e dal non essermi accorto della gravità della situazione. E questo non accorgermi ha cambiato la situazione.
Come un bambino che, nella vasca, piange perché si sta versando dell’acqua addosso mentre tiene premuto il rubinetto con il gomito senza accorgersi.
Come si dice? “Tirarsi la zappa sui piedi”. In questo caso la zappa è stato continuare a fare le stesse cose di sempre, ed è una zappa molto pericolosa.
Per sventare la zappa al Sud non si richiede granché, non è complicato (escluse forse le grosse polemiche – e secondo me sacrosante – riferite alle chiusure delle aziende).

Stando a casa si vive una sopravvivenza animale: ci si alza dal letto per mangiare, bere, lavarsi, andare di corpo, dilettarsi in qualche modo e tornare al letto. Appunto si sopravvive. Forse è difficile all’inizio anche dare un senso alle giornate.
Ma il senso, sottile sottile, c’è. Evitare che il sole in faccia, le scarpe ai piedi, i mezzi di trasporto, la corsa per la pioggia, le luci, i miei amici, il vino rosso – ho elencato le cose che mancano alla mia amica Francesca stando a casa – perdano di significato dopo, quando usciremo di casa. Che significato avrà vivere queste cose se vivendolo ora uccidono? Lasciamole da parte ora per farle rimanere immacolate dopo. Il virus non si può uccidere battendo continuamente le mani sulle superfici, cercando di schiacciarlo – e forse è una fortuna, perché sarebbe estenuante.
Il virus si schiaccia dando significato a tutte quelle piccole cose che si vivono in casa: è vero che ci si allarma se papà tossisce, ci si irrita più facilmente di quel tic di mamma e non si sopporta il ticchettio dell’orologio, ma se tutto in casa diventa importante, in questo essere perennemente sul chi va là, è perché non vogliamo essere aggiunti al gruppo di chi è deceduto ed è diventato solo un numero: ogni gesto in casa è adesso rilevante per evitare che l’evento più importante della nostra vita (assieme alla nascita), ossia la morte, diventi insignificante.
Nel mio passeggiare in soggiorno incontro la foto di nonna. È morta tre anni fa.
Ma te lo immagini nonna se a Mola arrivasse quel killer del Covid 19? A Bergamo la linea delle ambulanze a volte può rispondere dopo un paio d’ore: immaginati a Mola invece, dove, senza ospedale, le ambulanze arrivano dagli altri paesi!
Dunque, che mi dici? “Che anno è, che giorno è?” interviene Lucio Battisti con una sua nota canzone.
“1984” mi pare che risponda lei, in riferimento al romanzo distopico di Orwell in cui un dittatore domina incontrastato, tutti enunciano lo stesso slogan, tutti sono burattini, e il presente è diabolico. Non c’è nessuna speranza. Nonna mi provoca.
Perché noi a fare la stessa cosa, ovvero stare in casa tutti assieme, non saremmo burattini, ma semplicemente dei provvidenziali amanti. Lo scegliamo noi, lo decidiamo noi. L’amore è bello per quello: è la più alta forma di volontà, se sono amato è perché qualcuno ha scelto di farlo. È questo che piace dell’amore.
“Nonna, com’è il titolo della canzone?”
“I giardini di Marzo”
“Ecco appunto. I giardini di Marzo si vestono di nuovi colori”.
Questi colori, pure adesso che se n’è andata l’auto della polizia, si vedono ugualmente. Anche dalla finestra. Figuriamoci quanto sia facile dalla stessa posizione, per chi l’ha visto fino ad oggi, pensare al mare.

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