di Nicola Rotondi

Ospedale di SS. Giovanni e Paolo di Venezia

Il dramma quotidiano di questo periodo ci consegna parte di quel materiale umano, narrativo, emozionale da cui ripartire quando riconnetteremo le nostre esperienze interrotte da questa emergenza.

È un repertorio fatto di storie, giorni e persone. Di paure e sentimenti insoliti, di distanze che si allontanano e altre che si congiungono idealmente in una nuova percezione dell’umanità.

Oggi vi riportiamo l’intervista che Costanza Catalano, giovane infermiera molese in servizio a Venezia, ha rilasciato a “Città Nostra”. Il suo è un racconto delicato, impresso nei suoi stessi occhi coperti dalla visiera e fiero di apparire vivido anche ai nostri, scossi da una tremenda realtà.

Quando ti sei resa conto, con i tuoi colleghi, che sareste stati travolti da una situazione di portata inimmaginabile?

Ho da poco iniziato a lavorare presso l’Ospedale SS. Giovanni e Paolo di Venezia. La gioia della firma del contratto è subito passata in secondo piano poiché sono stata catapultata in una realtà ben diversa da quella che mi aspettavo. Già nei giorni precedenti avevo sentito parlare in tv di “Emergenza Covid-19”, ma nonostante ciò non ho capito davvero con cosa avrei avuto a che fare fino a quando non ho toccato con mano.

Mi sono sentita spaesata, in un nuovo ospedale e con nuovi colleghi, ma non c’è stato tempo per ambientarmi. Ho dovuto rimboccarmi le maniche per essere d’aiuto agli altri ed eccomi assegnata al reparto di Malattie Infettive, proprio dove ricoverano i pazienti Covid-19 positivi.

Non nascondo di aver pianto il giorno prima di iniziare, avevo il cuore in subbuglio, ma dovevo affrontare quel “mostro invisibile”. Così da dover lavorare con la nostra semplice divisa bianca, io e i miei colleghi abbiamo dovuto indossare pesanti camici, doppi guanti, mascherine con filtro, visiere e calzari: presidi che tenuti per tanto tempo lasciano segni sul viso e irritazioni sulle mani.

Quando il numero dei contagi ha iniziato la sua crescita esponenziale, il numero dei ricoveri è aumentato velocemente e di conseguenza il carico di lavoro è diventato più pesante e con esso anche la preoccupazione di potersi ammalare e non tanto per noi stessi quanto per i nostri cari che a casa ci aspettano con ansia.

Com’è la situazione in questo momento in ospedale?

All’interno del nostro ospedale è stata rivista tutta l’organizzazione interna perché per poter far fronte al Coronavirus serviva una nuova strategia. Dopo intensi momenti di crisi e confusione, i dirigenti hanno deciso di creare un’area dedicata a tutti i casi sospetti in attesa del risultato del tampone e di allestire un percorso alternativo di accesso al pronto soccorso per tutte le altre urgenze. Alcuni reparti sono stati completamente chiusi e il personale è stato smistato nei reparti più saturi e al collasso per combattere al fianco dei colleghi già stanchi.

Com’è organizzato il reparto in cui lavori?

La mia fortuna, in tutto ciò, è stata quella di giungere in un reparto ben organizzato con dei colleghi stupendi che mi hanno accolta in modo squisito sin da subito e con una fantastica caposala che si batte ogni giorno per non farci mancare niente, neanche il sorriso che tanto ci serve per caricarci e affrontare al meglio la giornata. Quel sorriso che poi regaliamo ai nostri pazienti.

In qualsiasi turno di lavoro cerchiamo di concentrare tutte le attività per ridurre al minimo gli accessi nelle stanze, purtroppo. Dico purtroppo perché noi vorremmo poter chiacchierare di più con i nostri pazienti, restare ad ascoltare le loro preoccupazioni e dare carezze di sollievo fatte di calore umano e che invece sanno di nitrile come i guanti.

Prima di entrare nelle stanze inizia la vestizione, processo a cui bisogna prestare attenzione poiché bisogna eseguire i vari passaggi con un ordine ben definito senza dimenticare nulla: i camici devono coprire ogni centimetro di pelle e della divisa, poi si passa a calzari guanti e infine mascherina, cuffia e visiera.

Una volta pronti si entra in stanza per somministrare la terapia, sistemare i letti e lavare i pazienti e per dar loro da mangiare a meno che non abbiano un sistema di ventilazione ad alti flussi senza il quale non riescono a respirare. Si passa poi a misurare i parametri vitali e li comunichiamo al collega che ci aspetta fuori dalla stanza nella zona “pulita” sempre pronto a dare una mano in caso di necessità.

Terminato il tutto, uscendo dalla stanza, passiamo nella zona filtro dove avviene la svestizione sempre con attenzione e con un ordine particolare per non contaminarci e queste operazioni vengono ripetute per l’ingresso in ogni stanza a seguire. Alcune stanze hanno delle finestrelle sulla porta d’ingresso grazie alle quali possiamo osservare i pazienti e per leggere sui monitor i parametri vitali soprattutto dei più gravi. Questo accade perché non possiamo entrare nelle stanze ogni volta che si vuole per questioni di sicurezza e per far tesoro dei Dpi (Dispositivi di protezione individuale), non solo per poter garantire l’assistenza ai pazienti, ma pensando anche al lavoro dei colleghi dei turni successivi.

Quante ore al giorno lavorate?

I turni di lavoro vanno dalle 8 alle 10 ore al giorno, ma se ci dovesse essere bisogno d’ aiuto siamo sempre pronti a trattenerci del tempo in più. Molti colleghi hanno dovuto rinunciare ai riposi e ai giorni di ferie nonostante il personale sia stato potenziato proprio per l’emergenza.

Avete tutti i dispositivi per prevenire il contagio?

In questo momento nel mio reparto abbiamo tutti i dispositivi per prevenire il contagio anche se centellinati e per questo ogni giorno viviamo con l’ansia che possano terminare e non arrivare, come accade in altri reparti dello stesso ospedale, oppure che non siano sufficienti a coprire il fabbisogno e per questo bisogna farne tesoro e usarli con parsimonia.

Costanza Catalano

Quali emozioni vivi a fine turno, quando la lotta in trincea è solo rinviata al giorno dopo?

Quando finisce il turno di lavoro, dopo aver dato le consegne ai colleghi del turno successivo, mi preparo per andare a casa. “Casa” che in fin dei conti è lontana dalla mia terra e dai miei affetti. Quando torno a casa non posso rassicurare personalmente la mia mamma e chi per me ha sempre un pensiero e si preoccupa e non posso abbracciare i miei nonni per dir loro che va tutto bene, ma per fortuna ho accanto a me il mio compagno di vita, la spalla forte su cui posso sempre contare e a cui posso raccontare la mia giornata e le mie emozioni.

Quando entro nello spogliatoio e apro l’armadietto, tolgo la mia semplice divisa bianca e con essa viene via ogni corazza necessaria per poter alleviare i pazienti da ogni dolore della malattia e dalla sofferenza di non poter vedere i propri cari. Ed è in quel momento che vien fuori la parte più fragile e nascosta di me: la stanchezza, la frustrazione di non aver potuto fare di più, le emozioni di vivere tutti i giorni accanto a chi lotta contro la morte e l’insegnamento di vita che tutto questo mi dà. Però, dall’altra parte, vive in me anche la gioia di aver ricevuto quel grazie sincero da chi è dentro un letto e ti chiede aiuto solo per poter bere un po’ d’acqua.

C’è un episodio che ti è rimasto particolarmente impresso?

Ce ne sono tanti di episodi e di volti che mi hanno lasciato un segno nel cuore. Tutti i giorni, però, siamo bombardati dai tg di notizie negative: persone decedute, nuovi contagi, restrizioni aumentate e per questo preferisco raccontarvi un episodio a lieto fine.

Roberta, 50 anni, una donna silenziosa, segnata oltre che dai suoi tatuaggi, da una cicatrice più profonda lasciata dalla sua battaglia contro il cancro. Ma la vita si sa è beffarda e oltre al cancro ci mancava il Coronavirus! Nonostante la sua giovane età, Roberta era stanca e da quel letto non riusciva ad alzarsi neanche per lavarsi il viso e pettinarsi i capelli. Per tutto il tempo del ricovero noi siamo stati le sue gambe e le sue braccia mentre lei, nel suo silenzio, continuava a lottare per vincere la sua seconda battaglia.

Una mattina, appena arrivata a lavoro ho guardato al pc se fosse arrivato il risultato del suo secondo tampone e con immensa gioia leggo “negativo”. Roberta aveva vinto un’altra volta e quando sono entrata in stanza per darle la bella notizia lei è scoppiata a piangere, un pianto di felicità e stanchezza allo stesso tempo e io in quel momento le avrei dato un forte abbraccio, ma non ho potuto. Quel giorno è stata dimessa dal nostro reparto lasciando a tutti noi un messaggio di speranza.

Se ti va, puoi lasciar correre liberi i tuoi pensieri…

C’ è una frase che da anni mi accompagna e cioè “Senza dare amore a qualcuno la nostra vita non ha alcun valore”. È sempre presente nella mia vita e nel lavoro, perché amo il mio lavoro e lo svolgo con passione. La sua parte più bella è proprio quella di poter trasmettere forza e calore a chi soffre e in questo particolare periodo di poter essere la loro finestra sul mondo perché è attraverso la nostra voce che i pazienti ricoverati parlano con i loro parenti.

Toccare la sofferenza con mano mi ha cambiata, mi ha fatto capire quanto fragile e impotente sia l’essere umano. Così ho iniziato a guardare la vita da un’altra prospettiva, a dare il giusto peso alle cose e a riflettere tanto prima di ogni mia azione, nonostante abbia avuto anch’io i miei momenti di fragilità.

Ogni volta, però, mi sono rialzata più forte e sono convinta che accanto a me ho sempre il mio piccolo angelo Domenico, un bimbo che è volato in cielo troppo presto. Lui per me non è stato un paziente, ma un esempio di vita e la sua famiglia è ormai diventata la mia. È stato un grande guerriero e anche se la malattia ha avuto la meglio, mi ha insegnato l’amore vero e gratuito, quello che non si aspetta niente in cambio. Domenico vivrà per sempre nel mio cuore e di quello di chi lo ha saputo amare.

Ed è proprio per questo motivo che dinanzi alla sofferenza io mi sento davvero piccola e non un eroe, come tutti, in questi giorni, ci definiscono in tv e sul web. Chi sono per me i veri eroi? Tutti coloro che si ritrovano in un letto di ospedale a combattere nemici invisibili e l’unica richiesta che esprimono è quella di avere uno sguardo amico che li faccia sentire protetti e al sicuro nell’immensa solitudine e nel profondo silenzio della loro camera di ospedale.

A loro va il mio grazie perché ogni giorno mi dimostrano come lottare per restare “attaccati alla vita”. A tutti voi, invece, chiedo di aiutarci restando a casa, seguendo i consigli che ci vengono dispensati in tv e di non dimenticare il lavoro di tutti gli operatori sanitari, anche quando questa guerra l’avremo vinta perché noi ci siamo sempre stati e sempre ci saremo.

La vita è un dono meraviglioso, anche se a volte complicato e doloroso: cerchiamo di preservarla e se tutti insieme ci daremo una mano, andrà tutto bene.

Condividi su: