di Nicola Bellantuono

Dalla pagina Facebook del sindaco Colonna si apprende che la Regione Puglia ha ammesso a finanziamento il progetto presentato dal Comune sul bando “La cultura si fa strada” per la promozione di interventi di street art. Il bando regionale si propone di «promuovere e sostenere la street art quale forma espressiva di grande impatto visivo, in grado di consentire alle amministrazioni pubbliche di contribuire a rigenerare, riqualificare e valorizzare in chiave artistica luoghi e beni della città, con particolare riferimento alle aree degradate o periferiche». Nel dare notizia del finanziamento, il sindaco precisa «abbiamo scelto per questo progetto il parco di Don Pedro».

I giardini di don Pedro, però, non sono un parchetto pubblico di periferia: ancorché bistrattati da decenni di incuria e disinteresse, essi sono un’opera d’arte in sé, con una complessa simbologia che in molti abbiamo avuto la fortuna di ascoltare dalla bocca dell’autore (Pietro Di Giorgio, 1923-2007) e che peraltro è stata descritta in un bel volume di Valeria Nardulli, edito nel 2019.

Guardare nell’aleph di quella commistione di pietra, smalti, calcestruzzo ed elementi naturali, leggere con attenzione i simboli che vi sono contenuti significa addentrarsi in una cosmogonia fantastica, purtroppo incompiuta, che si nutre – con pari dignità e identico rispetto – della conoscenza profonda e originale delle civiltà precolombiane che l’autore aveva acquisito nei suoi prolungati soggiorni in America Latina, delle tradizioni mistiche orientali, degli archetipi ereditati dalle civiltà classiche mediterranee, del retaggio ineludibile del cristianesimo.

Nicola Fanizza, recensendo su “Nazione indiana” il volume di Valeria Nardulli, ha descritto il sincretismo di quel giardino come un’operazione alchemica; e in effetti quei calcestruzzi puntuti sembrano fatti per forare le barriere del vicino e del lontano, dell’oggi e dello ieri, di ciò che è nostro e di ciò che è altro da noi.

Ridurre i giardini di don Pedro a fondale di un’operazione di street art significa disconoscerne la dignità di opera d’arte, piacciano o non piacciano, li si sia capiti o no.

Nulla contro la street art in sé, che pure può essere un’operazione molto interessante specialmente in un posto come Mola che ha bisogno di iniziative artistiche di rottura. Ma trovo assolutamente improvvida la scelta di quel luogo, perché a mio avviso travisa il meme alla radice dell’arte di strada, che non è un’operazione “decorativa”, una “mano di colore” purchessia, ma un modo per restituire dignità creativa ai luoghi che per antonomasia ne sono sprovvisti.

Invece, con questa operazione – che non ha né può avere le caratteristiche di un restauro filologico dell’opera originale – si è scelto, nel migliore dei casi, di affastellare significati nell’unico luogo di Mola che già ne è trabordante. In quale altro posto al mondo capitano scelte del genere?


A queste considerazioni si è aggiunto il commento di Valeria Nardulli, docente di storia dell’arte e autrice del volume sui Giardini. A suo avviso «prima di rivolgersi incautamente ad interventi di street art, che pure sono pregevoli in un contesto degradato, bisognerebbe procedere con molta cautela nel prendere simili decisioni. Sarebbe doveroso procedere al restauro del sito e sottoporre qualsiasi tipo di intervento ad un comitato scientifico di esperti. A quale muro esterno si fa riferimento? Chi dovrebbe realizzare questo intervento di street art? Perché lì? Atteggiamento ambiguo. Chi sono coloro che hanno presentato tale progetto? Una serie di interrogativi degni di risposta. Si dovrebbe richiedere un finanziamento per il restauro e non per un intervento di street art. Chi approverebbe degli interventi di street art ai muri esterni della reggia di Caserta o del giardino di Boboli o dei giardini Vaticani?».

L’immagine del giardino con cui il sindaco ha comunicato l’avvenuto finanziamento.

È arrivata quindi la precisazione di Giuseppe Colonna: «L’intervento non riguarderà l’opera di Don Pedro ma parte dei muri esterni che nulla hanno a che fare con l’opera dell’artista (preciserà poi: solo il muro lungo via Einaudi, ndr)». L’utile precisazione del sindaco dirada però solo in parte i dubbi generati dal suo stesso post, che oltretutto è corredato di un’immagine dell’interno dei giardini, non del muri di confine (in gran parte opera di don Pedro).

Non vengono tuttavia meno le riserve su un’iniziativa che ancora una volta, dopo l’improvvida trasformazione in effimero luna park, procede in una direzione diversa dal recupero, e magari anche del completamento, di quello spazio simbolico e che – al di là delle più o meno consapevoli intenzioni – contribuisce a celarne la natura, a snaturarne il non banale messaggio.

Le opere artistiche, a maggior ragione se pubbliche, dovrebbero essere considerate patrimonio indisponibile, perché non appartengono a un singolo e neppure a una generazione: sono beni comuni, e chi ne ha avuta affidata la responsabilità dovrebbe assumersi il compito di custodirle e tramandarle per quello che sono e per quello che significano.

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