di Nicola Bellantuono

In un Comune abitualmente tacciato di inerzia nell’affrontare le manutenzioni più semplici, ogni intervento sull’arredo urbano dovrebbe essere salutato con soddisfazione o almeno con una certa dose di sollievo. Eppure a Mola può capitare che il ripristino di un tratto di illuminazione stradale offra l’occasione per operare sciattamente, persino in difformità dalle prescrizioni di legge.

Non si tratta solo di valutazioni estetiche, di per sé opinabili. Già da quindici anni in Puglia è in vigore la legge regionale 15/2005 che reca “misure urgenti per il contenimento dell’inquinamento luminoso e per il risparmio energetico” sia a carico dei soggetti privati, sia in capo alle Pubbliche Amministrazioni. In relazione a questa legge, l’intervento realizzato da pochi giorni in via Lungara Porto, lungo la balaustra che separa il marciapiedi dallo scalo d’alaggio, appare del tutto inaccettabile e, per molti versi, incomprensibile.

Per ripristinare un tratto di illuminazione pubblica vandalizzato dall’inutile protervia degli incivili e dalla colpevole assenza di manutenzione ordinaria, sono stati collocati nuovi lampioncini a forma di  globi opalescenti posti su un palo. Come è noto – si spera – a chiunque, un corpo illuminante sferico e privo di adeguati sistemi di schermatura proietta la luce in tutte le direzioni: in basso, dove in effetti l’illuminazione è necessaria, sulle chiome degli alberi, dov’è inutile, e verso l’alto, dove invece è dannosa sia per l’inquinamento luminoso sia per l’irraggiamento molesto delle abitazioni circostanti.

La legge regionale è molto chiara nel definire inquinamento luminoso «ogni forma di irradiazione di luce artificiale che si disperda al di fuori delle aree a cui essa è funzionalmente dedicata, in particolar modo se orientata al di sopra della linea dell’orizzonte» (art. 1). Con l’obiettivo di promuovere «la riduzione dell’inquinamento luminoso e dei consumi energetici da esso derivanti», essa definisce i requisiti tecnici ai quali devono attenersi gli impianti di illuminazione esterna, pubblici e privati, e indica precise responsabilità della Regione medesima, delle Province e dei Comuni.

In particolare, l’art. 5 della legge 15/2005 è inequivocabile: «Tutti i nuovi impianti di illuminazione esterna pubblica e privata devono essere corredati di certificazione di conformità alla presente legge […] e devono possedere contemporaneamente i seguenti requisiti minimi: (a) essere costituiti da apparecchi illuminanti aventi un’intensità massima di 0 candele per 1000 lumen di flusso luminoso totale emesso a 90 gradi e oltre; (b) essere equipaggiati con lampade ad avanzata tecnologia ed elevata efficienza luminosa; […] (d) essere provvisti di appositi dispositivi» in grado di ridurre l’emissione di luce in base al flusso di traffico, comunque non oltre la mezzanotte.

Fuori dal tecnico: la lettera (a) vieta l’istallazione di apparecchi che dirigano una frazione anche piccola di luce verso l’alto e comunque oltre la linea dell’orizzonte; la lettera (b) impone di equipaggiare gli impianti con tecnologie a elevata efficienza luminosa: non soltanto in grado di illuminare di più a parità di energia impiegata, come oggi accade con i LED, ma anche di illuminare meglio, ossia in grado di assicurare una migliore resa cromatica (anche per questo è vietato l’uso di vetri di protezione non trasparenti); la lettera (d) impone l’uso di dispositivi per smorzare la luce emessa nelle ore in cui non serve, fatte salve eventuali esigenze di sicurezza. Venendo meno una sola di queste caratteristiche, l’impianto non è conforme alla legge e non può essere certificato.

Come è possibile che un impianto di illuminazione pubblica con nuovi corpi luce acquistati ad hoc e appena installati sia stato progettato e realizzato con delle caratteristiche che ignorano la legge regionale? Chi ne ha stabilito le specifiche tecniche e chi ne ha certificato la conformità? Quanto è costato l’intervento e a carico di chi saranno i maggiori costi nell’esercizio dell’impianto e quelli necessari ad adeguarsi a una legge in vigore da ben 15 anni? Perché tocca ai cittadini pagare?

Mentre rivolgiamo queste domande ai diretti responsabili, cogliamo l’occasione per ricordare che dopo il benemerito intervento dei mesi scorsi, grazie al quale è stato possibile efficientare gli impianti di illuminazione pubblica sulle principali vie del centro, da parte dell’amministrazione comunale non è seguita alcuna altra iniziativa relativa al resto delle strade.

Gran parte dell’abitato continua ad avere impianti obsoleti, insufficienti, costosi, inquinanti, che alterano la percezione dei colori, non garantiscono la sicurezza di chi vi cammina, si disperdono sulle facciate degli edifici prospicienti e sprecano energia e soldi di noi cittadini, sottraendoli ad altre, più proficue destinazioni. Il Comune di Mola avrebbe dovuto dotarsi di un piano per l’illuminazione sin dal 2009; avrebbe dovuto adeguare gli impianti fuori norma con idonee schermature o sostituendoli integralmente; dovrebbe esercitare azioni di vigilanza e controllo anche in relazione alle iniziative dei privati.

Il programma dei lavori pubblici, recentemente adottato dalla giunta comunale, per il 2021 non prevede alcuna iniziativa di contrasto all’inquinamento luminoso. La mancanza di fondi non è una giustificazione plausibile: molti Comuni conducono gli investimenti di efficientamento energetico mediante project financing, senza esborsi iniziali a proprio carico. Perché per Mola non è possibile?

Vivere in un consesso civile significa agire sotto un ombrello di leggi, che non sono vincoli alla libertà d’azione del cittadino ma regole per rendere più accogliente la casa comune. Conformarsi alle leggi è responsabilità di chiunque, e a maggior ragione dovrebbe essere un dovere per chi – per ruolo istituzionale o per incarico professionale – opera a nome, e con le risorse, di tutti noi.

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