di Vittorio Farella

FOSCHI TEMPI DI CONFUSIONE COLLETTIVA

Scrivo queste note a poche ore dall’inizio delle operazioni di voto di questa anomala tornata elettorale settembrina. Lo faccio ora, fuori dalla tenzone che ne ha caratterizzato il clima, soprattutto fra gli addetti ai lavori, e che non ha invece appassionato più di tanto i cittadini. Non credo, a mia memoria, che pur non è tanto breve, che vi sia stato mai un periodo di disaffezione (uso volutamente un eufemismo) così marcato tra cittadini e istituzioni dal dopoguerra e dall’avvento della Repubblica ad oggi e son certo che la votazione che stiamo celebrando in queste ore non ne sarà che ulteriore suggello.

Il discredito nel quale è stata proiettata la politica da un populismo galoppante e becero ha creato un solco difficilmente colmabile nel breve-medio periodo e quasi sicuramente sarà fonte di disavventure nel sistema governo del Paese, che mi auguro non sfocino nell’irreparabile per le sorti democratiche.

E tale discredito ha tante matrici, tutte comunque ascrivibili ai nostri comportamenti collettivi. La degenerazione della classe politica è in stretta correlazione con quella dei costumi e delle condotte dei cittadini, anzi ne è una diretta conseguenza. Di certo l’una è lo specchio fedele dell’altra, come recita il vecchio adagio “ogni popolo ha il governo che si merita”.

Non desidero affatto semplificare o banalizzare una questione certo complessa, articolata e da studiare profondamente, ma di certo è una deriva che prende le mosse dalla svolta degli inizi degli anni ’90, dalla cosiddetta rivoluzione di Mani Pulite. È lì, infatti, che possiamo fissare il momento del mutamento radicale di direzione nella politica italiana, con la fine della cosiddetta prima Repubblica. I mali della politica, che onestamente si riscontravano anche in quel periodo storico, erano svariati, ma sono stati ricondotti e ristretti semplicemente ed emblematicamente al finanziamento illecito dei partiti, divenuti fulcro  e simbolo del decadimento della nobile arte della politica.

Sì, nobile e lo sottolineo, evocando tesi aristoteliche. La politica, difatti egli sosteneva, è il mezzo più alto per far comprendere all’uomo chi egli è e quali siano le proprie capacità: “ Per vivere da soli si deve essere una bestia, o un dio o un filosofo, ma l’uomo è tutt’altro, egli è per natura un animale politico”. La politica, dunque, quale socialità, dimensione costitutiva dell’essere umano, gli appartiene in maniera totale e solo attraverso tale dimensione l’uomo scopre il valore del bene comune. Valore che è allo stesso tempo prerogativa della politica ma anche un dovere che ognuno di noi dovrebbe coltivare. Questa premessa è necessaria per interrogarci sull’antipolitica galoppante dei nostri tempi e il populismo che ne fa da sponda.

E il referendum che stiamo celebrando è l’archetipo di tale assioma. La riduzione della rappresentatività democratica non è un tabù, ma non può essere estrapolato da un contesto armonico: gli organismi si possono riformare e non tagliare a fette, fuori da un contesto di equilibri e rapporto di proporzionalità tra rappresentanti e elettori. Tralascio funzioni, natura e compiti del Parlamento, a cominciare dal bicameralismo perfetto, seppur problemi cruciali ed essenziali da affrontare e risolvere, fonte  primaria del malfunzionamento delle nostre istituzioni, per concentrarmi invece  sul problema della rappresentatività, tema sul quale stiamo vertendo.

Ho scritto qualche giorno fa in un post sul mio profilo Facebook: “non facciamoci ingannare dalle apparenze: la democrazia è sostanza di idee, valori, pluralismo”. E proprio sul pluralismo si gioca la partita della democrazia rappresentativa. La proposta del taglio delle istituzioni elettive, in atto da tempo e a tutti i livelli politici, non è a favore della democrazia e della rappresentanza, ma è servito a dare più, anziché meno, spazio al potere delle segreterie dei partiti e delle consorterie che li hanno sostituiti. Questo  processo di riduzione degli organismi deliberativi elettivi, consolidatosi negli ultimi due decenni, ha di fatto rafforzato il potere degli organismi apicali, cresciuto in proporzione diretta allo snellimento degli organi collegiali elettivi, snaturando il sistema di garanzia di rappresentatività delle minoranze. Il comando si è spostato verso l’alto, verso blocchi di potere o leader incontrastati. Si va verso una democrazia bloccata su gruppi di potere che, se pur alternandosi, non lasceranno spazio alcuno a ricambi reali.

Il taglio lineare dei parlamentari, com’è stato quello dei consigli comunali, provinciali (questi ultimi addirittura ridotti a simulacri) e regionali, non ci darà più democrazia ma anzi ha già agevolato, e continuerà ad incrementarla, la casta che si diceva di voler abbattere. Ho portato spesso, in questa campagna referendaria, l’esempio concreto della riduzione dei rappresentanti istituzionali negli Enti Locali. Il dimezzamento dei consiglieri comunali e regionali ha concesso un peso specifico maggiore ai singoli che, in mancanza delle formazioni politiche che un tempo ne consentivano una preselezione, sono ora spesso autoreferenziali e finiscono per determinare in maniera negativa la politica amministrativa. Crisi amministrative a ripetizione sono ormai un dato ricorrente poiché basta l’alleanza fra due singoli, che non rispondono sostanzialmente ad alcuno, per bloccare o far saltare amministrazioni comunali.

Il pluralismo, poi, è garanzia di rappresentatività: con un numero ridotto di rappresentanti sono i poteri economici forti a prevalere e le minoranze sono di fatto annullate, complice anche lo sbarramento elettorale, asticella che si è elevata a vette insormontabili (vedi legge elettorale Puglia).

Se pensiamo poi alla nostra realtà meridionale, contraddistinta ancor oggi e ampiamente dal voto clientelare, il voto d’opinione viene marginalizzato al punto di impedire sostanzialmente di esprimere qualche suo rappresentante, che potrebbe scuotere gli organismi decisori dal torpore degli interessi specifici e di parte e rimettere al centro il bene comune. Sono circostanze note e ormai dilaganti.

Ecco perché ho votato NO, anche sapendo di stare dalla parte di chi è destinato a perdere. Mi sono chiesto perché nonostante tutto il mondo accademico e scientifico sia entrato in campo, come non mai, a sostegno delle tesi contrarie a quel tipo di riforma non ha trovato l’adesione di tanta gente che ha preferito seguire populisti e demagoghi. Obnubilamento delle coscienze o cos’altro? Viviamo in un tempo di crisi economica, amplificata dalla pandemia in corso, ma, quella che attraversiamo è soprattutto una crisi di valori, una crisi dell’animo umano. Dalla parola “crisi” deriva una visione negativa della realtà, ma la crisi è spesso anticipazione e inclinazione al cambiamento. Dobbiamo perciò sperare e avere coraggio di affrontare questa crisi, soprattutto quella successiva a quest’ennesimo sgarbo costituzionale, e pensare ad un possibile, reale e concreto cambiamento.

Concludo queste note mentre è in pieno svolgimento la consultazione elettorale e la monta dei SÌ nelle urne ormai cresce inesorabile. Non sono avvilito, perché cosciente, ma allo stesso tempo consapevole che ci sarà molto da lavorare per evitare il peggio.

 

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