di Andrea G. Laterza
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.
Lo ha detto lo scrittore e filosofo Umberto Eco in occasione di un incontro con i giornalisti a Torino, dove ha ricevuto la laurea honoris causa in ‘Comunicazione e Cultura dei media’ perché “ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica”.
“La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”, ha osservato Eco.
Si deve convenire con Umberto Eco: il proliferare di profili facebook pure tra gli abitanti del nostro paesello non è sempre portatore di qualità, sia nel pensiero che nella proposta.
Anzi, spesso trionfano l’ostentazione, il solipsismo, l’autoreferenzialità, il narcisismo. Anche quando si pretende di erigere a “sistema-paese” idee di modesta levatura, tradotte in effetti speciali di massa, spacciate per risolutive di mali atavici, mentre sarebbe necessario promuovere e coltivare lo spirito critico, in specie nei più giovani. La realtà è molto più sfaccettata di quanto appaia e non esistono ricette semplici per problemi complessi.
Ecco perché leggere è molto importante: meno ore sui social network e più tempo con i libri (di carta) costruiscono persone libere e poco influenzabili dai quintali di sciocchezze e facezie di facebook e dintorni.
Caro Andrea, non sono d’accordo. Internet è come il bar: possiamo attribuire all’esistenza dei bar la colpa dei cretini che vi straparlano? No, spero, ma l’obiezione è che Internet è – diciamo così – un bar molto frequentato: come venirne fuori? Io vedo tre soluzioni.
Una è rinunciare del tutto a frequentare quel bar, a patto poi di non lamentarsi se l’acqua del rubinetto ha sempre lo stesso sapore e magari sa troppo di cloro.
Un’altra è adoperarsi perché sia messo un buttafuori sulla soglia del bar che faccia la (sua!) selezione: ma chi è disposto a correre il rischio che a decidere della nostro bere sia qualcuno a cui stiamo antipatici? A me spaventa l’idea che chicchessia sia autorizzato a stabilire in via ufficiale che sono troppo imbecille per comunicare qualcosa su un social network.
La terza via, infine, è lavorare sugli anticorpi: le frottole si propagano a casa, in piazza e pure nei social network. Narcisi, egolalici e autoreferenziali si trovano al bar e a casa propria con la stessa frequenza. Ma più frequentato è il posto, più è facile che arrivi qualcuno in grado di metterli a tacere. Un fatto è certo: la rapidità con la quale certi fruitori di Internet producono idiozie è seconda solo all’efficacia e alla rapidità con cui certi altri sono in grado di riconoscerle come tali. Hai seguito, in campagna elettorale, la questione del premio allo spot di Diperna (notizia diffusa su un’autorevole testata giornalistica)? Grazie a Internet, in poche ore si è potuto scoprire che era stato conferito da una giuria inesistente e in poche ora la notizia è circolata in modo capillare.
Fuor di metafora, ogni paragone tra Internet e la società parte dall’assunto – falso – che si tratti di sfere distinte: io e te li frequentiamo entrambe e mi sembra che siamo sempre le stesse persone. Dire “abbasso Facebook” è proprio “la ricetta semplice al problema complesso” di cui giustamente scrivi: lasciamo quindi queste battaglie di retroguardia ad arguti intellettuali con un passato da avanguardia alle spalle e occupiamoci piuttosto di sviluppare il senso critico nelle persone, quegli anticorpi di cui ho parlato. Per fortuna, oggi possiamo contare su strumenti potentissimi (Facebook incluso) per accedere e diffondere informazioni: sforziamoci di usarli tutti e al meglio che possiamo e chissà che domani le legioni di imbecilli diventino un po’ più piccole anche grazie al nostro operato.
PS: ma in tutto questo, il “sistema Palio” che c’entra?
Nicola, innanzitutto, e a scanso di equivoci al fine di evitare l’ennesima diatriba con persone fin troppo permalose: il sistema palio nel mio discorso non c’entra niente! Infatti, ho parlato di “sistema-paese”, non di sistema palio (che cosa sia questo “sistema palio” poi non è chiaro…), riferendomi a quanti, in generale, spacciano soluzioni semplicistiche omnicomprensive come risolutive dei mali di Mola.
Quanto alla logica del bar e ai suoi effetti, mi pare che Eco abbia voluto dire una verità sacrosanta: se l’imbecille di turno sparava a vanvera in un bar, cinque minuti dopo la sua sparata finiva nel dimenticatoio, magari tra le risate generali.
Oggi, se qualcuno straparla nel web consegna al mondo intero e a tempo indefinito il frutto di un’ubriacatura della mente. Ed è vero che le “bufale” si possono sempre smascherare, ma ci sarà sempre qualcuno pronto a crederci e a rilanciarle ad libitum. Nel bar sottocasa il danno era minimo, sul web può essere deflagrante.
Il web ha poi tanti cerchi concentrici: può servire a mobilitare un popolo contro un tiranno ma può limitarsi a condividere la foto della focaccia della zia che abita sull’altro lato della strada…
E fin che si tratta di focacce non c’è danno, anzi. Ma quando le legioni di cui parla Eco non fanno altro che utilizzare le pagine pubbliche di FB (non quelle private, dove l’accesso è limitato e uno può farci quello che vuole!) per inneggiare a se stessi, per autocelebrarsi, per auto-fotografarsi (i famosi selfie) in mille pose anche assurde e ridicole, o addirittura per “impartire la linea” a chi dovrà amministrare (guardandosi però bene dal cimentarsi in una pubblica elezione), vuol dire che il fanfarone del bar sotto casa ha trovato casa nel mondo!
E la cosa preoccupa ancor più quando, nel piccolo cerchio concentrico del web nostrano, non viaggiano solo foto di focacce ma personaggi assurti a ruoli di visibilità pubblica si atteggiano a divi di Mollywood e danno anche lezioni di morale familiare con tanto di anatemi (una volta lo facevano i preti, oggi lo fanno anche coloro che sposano la teoria del gender).
Naturalmente, senza alcun vero contraddittorio: infatti, i divetti “indossatori” nostrani (mi viene in mente Cossiga in proposito che pure detestavo…) utilizzano pagine pubbliche, ma i commenti sono invariabilmente a loro favore (se non sei loro “amico” non puoi commentare…) e il numero dei “mi piace” viene esibito come trofeo a garanzia di popolarità e, quindi, di verità.
Schiller scrisse: “Neanche gli Dei possono nulla contro la stupidità umana.”
Caro Nicola, a maggior ragione, temo che noi, miseri mortali, peraltro di un piccolissimo cerchio concentrico della piazza globale internettiana, abbiamo le armi spuntate contro i narcisi-indossatori del web-bar del paesello.
Nell’aggiungere un mio commento a questo interessante post ho il fondato timore di poter essere aggiunto alla schiera di cui Eco parla. Sono un discreto lettore delle opere di Umberto Eco (da quelle semiologiche ai romanzi più o meno riusciti: ho con grande fatica finito da poco la lettura del Pendolo di Foucault che avevo acquistato decenni fa). Effettivamente il livello della comunicazione può raggiungere valori decisamente bassi. Facebook in particolare è in tempi normali un augurificio zuccheroso e in tempi elettorali un’arena indemoniata e il suo principale difetto è per me la mancanza del ‘Non mi piace’ o persino ‘Aborro’. Il principale pericolo che però vedo in questo mondo ipercomunicativo è la scomparsa della privacy in un senso specifico: da ragazzi, chi di noi non ha detto delle cose di cui in futuro si sarebbe vergognato ?(se le chiamiamo ‘cazzate’, mi si perdoni il termine un po’ volgare, diciamo la verità!) Le sciocchezze scritte dei ragazzi di oggi si scolpiscono per l’eternità e ritornano nei motori di ricerca per anni e anni e nelle ricerche che i datori di lavoro oggi fanno prima di assumerli. Le schiere di imbecilli vanno salvate prima che condannate.
Vitomar (che senz’altro non appartiene alla schiera di cui parla Eco) dice, tra l’altro, una cosa giustissima sulla quale forse non si riflette abbastanza.
Infatti, praticamente tutti i direttori del personale quando esaminano un curriculum (che non sia finito preventivamente nel cestino…) fanno un’operazione preliminare: cercano la pagina facebook dell’aspirante lavoratore o, comunque, digitano le sue generalità su google.
Mentre una volta i datori di lavoro cercavano informazioni frammentarie tramite il parroco o il maresciallo dei carabinieri, oggi con un click sanno vita, morte e miracoli dei giovani che cercano di sistemarsi. E sono gli stessi ragazzi ad offrirgliele, inconsapevolmente, su un piatto d’argento.
Opinioni politiche, preferenze sessuali, convinzioni religiose, questioni personali e familiari, profilo caratteriale: tutto viene passato al setaccio dai capi del personale.
E, come dice Vitomar, nulla può sfuggire perchè il web registra tutto a tempo indefinito: anche il più piccolo bit rimane scolpito per sempre.
Le schiere di imbecilli si riempiono la bocca di “privacy” mentre consegnano, spesso con particolari molto personali, la propria vita al web e, soprattutto, a chi potrà o dovrà decidere del loro futuro lavorativo.